Alterazioni delle dimensioni tempo, spazio e linguaggio, dissociazione iperadattiva e nuove psicopatologie del momento presente
Alterations in the dimensions of time, space and language, hyperadaptive dissociation and new psychopathologies of the present moment
Caporale R.¹, Battisti V.²
¹-² IRPPI – Istituto Romano di Psicoterapia Psicodinamica Integrata
Riassunto
In questo articolo mettiamo in luce una nuova psicopatologia del “momento presente” che nasce dalle particolari caratteristiche della società contemporanea digitale e social. Un’alta velocità di elaborazione delle informazioni, una ridotta relazione fisica con gli oggetti, ed una semplificazione del linguaggio favorirebbero lo sviluppo di un meccanismo di adattamento psicologico che chiameremo dissociazione iperadattiva. Tale dissociazione strutturale configura una condizione umana emergente di involuzione psichica caratterizzata da una progressiva forma di impoverimento dell’esperienza di sé e della relazione. Questo diverso modo di fare esperienza del mondo fisico e sociale è in sostanza un “non modo di fare esperienza”, e per questo potremo anche utilizzare il nuovo termine di “dissociazione dal momento presente”. Molte delle più comuni forme di disagio derivate da una condizione di stress cronico sono riconducibili a tali fenomeni dissociativi attuali.
Parole chiave: dissociazione iperadattiva, dissociazione strutturale, momento presente, momento incontro, stress cronico, psicoterapia psicodinamica integrata.
Abstract
In this article we highlight a new psychopathology of the present moment that arises from the particular characteristics of contemporary digital and social society. A high speed of information processing, a reduced physical relationship with “objects” and a simplification of language would favor the development of a psychological adaptation mechanism that we will call hyperadaptive dissociation. Such structural dissociation configures an emerging human condition of psychic involution characterized by a progressive form of impoverishment of self-experience and relationship. This different way of experiencing the physical and social world is essentially a “not a way of experiencing”, and for this we will also be able to use the new term of “dissociation from the present moment”. Many of the most common forms of discomfort resulting from a chronic stress condition can be traced back to these current dissociative phenomena.
Keywords: hyperadaptive dissociation; structural dissociation; present moment; encounter moment; chronic stress; integrated psychodynamic psychotherapy
1. Il modello psicotraumatologico omnicomprensivo della psicopatologia
Analizzando la psicopatologia ed i relativi meccanismi eziopatogenetici in chiave psicodinamica e neuroscientifica, si considera oramai acquisita la stretta associazione fra trauma relazionale precoce, dissociazione e disregolazione affettiva con ricadute sulla compromissione dell’equilibrio dei sistemi autonomici simpatico e parasimpatico (e.g. Mucci, 2022; Schore, 2019; Hill, 2015; Porges, 2014).
Tale modello psicotraumatologico sarebbe alla base dello sviluppo di disarmonie evolutive che porterebbero alla strutturazione di funzionamenti patologici della personalità fin dai primi anni di vita, partendo da quelli più primitivi di frammentazione psicotica e polarizzazione borderline a quelli maggiormente adattivi depressivo-narcisistici e di sdoppiamento nevrotico (Caporale e Battisti, 2024; Caporale et al., 2024; Caporale e Battisti, 2023a; Caporale e Battisti 2023b; Caporale et al., 2023) .
Inoltre, la clinica psicodinamica è sempre più in accordo nel ritenere che i quadri sindromici di asse I, derivati dalle attuali nosografie psichiatriche DSM, debbano essere considerati come sintomi di rottura dell’equilibrio di tali organizzazioni psichiche, e dunque anch’essi ricondotti al meccanismo trauma-dissociazione-disregolazione (e.g. Schore, 2019; Mucci, 2022).
Questo rapporto tra clinica dei sintomi e strutture di personalità sottostanti sancirebbe un modello esplicativo sostanzialmente chiuso, riconducendo l’origine della psicopatologia sempre e solo ai primi anni di vita (Lingiardi e McWiliams, 2017).
Partendo da questa impostazione, in una concezione multifattoriale e biopsicosociale dominante, gli stressors ambientali, presenti nella vita di tutti i giorni, verrebbero a configurarsi esclusivamente come fattori di rischio, di mantenimento o precipitanti di un asset di personalità già precostituito.
In contrasto con tale concezione, nel presente articolo, proveremo ad argomentare come le particolari caratteristiche della società contemporanea diventino invece per noi veri e propri organizzatori di nuove forme di patologia ed abbiano la forza di modificare in senso peggiorativo qualsiasi funzionamento di personalità già esistente. In particolare, mostreremo in che modo lo stile di vita digitale e social porti ad un progressivo e generale impoverimento dell’esperienza del sé e dell’altro attraverso specifici meccanismi dissociativi attivi e ubiquitari nella vita di tutti noi.
2. Dissociazione iperadattiva come nuova forma di auto alienazione umana
Le osservazioni cliniche degli ultimi quindici anni su pazienti afferenti ai nostri studi professionali mettono in evidenza una costellazione sintomatologica emergente, incentrata su meccanismi psicopatologici unici e trasversali a qualsiasi funzionamento di personalità già strutturato in età evolutiva.
Nello specifico, abbiamo sempre più a che fare con stati ansioso-depressivi vaghi ed aspecifici, fluttuazioni dell’autostima, diffusioni dell’identità e sentimenti di vuoto, ciclotimie, immaturità affettiva, crisi di coppia e disturbi della sfera sessuale, tendenza al ritiro, indifferenza sociale, superficialità nei rapporti interpersonali, disturbi somatoformi, mancanza di progettualità e direzionalità, disorientamento professionale ed esistenziale.
La caratteristica che accomuna questi sintomi è l’egosintonia ed il mimetismo ossia quella bassa soglia di disagio che porta l’individuo stesso a confonderli con le caratteristiche stressanti della vita quotidiana.
In questo articolo, ipotizziamo che, alla base di tali manifestazioni cliniche, vi sia la presenza di un pool di fenomeni dissociativi, riconducibili ad un nuovo meccanismo di adattamento psicologico che chiameremo dissociazione iperadattiva. Nel tentativo estremo di conformarsi ad una realtà che pretende tirannicamente l’omologazione, il consenso e la desiderabilità attraverso l’accesso di massa al potere persuasivo ed illusivo del digitale e dei social, all’individuo non rimane che accettare il patto sociale a scapito di un livellamento verso il basso e dell’indebolimento di molte delle sue peculiarità umane. Da qui il concetto di iperadattamento come condizione parafisiologica, punto di caduta tra darwinismo sociale e sopravvivenza psichica.
La dissociazione iperadattiva investirebbe l’individuo proprio nella sua interezza e si caratterizzerebbe per una costante e pervasiva auto-alienazione da parti vitali del sé, una progressiva perdita delle proprietà tipiche dell’esperienza umana e di conseguenza della profondità psicologica legata alla costruzione di significato. Una nuova psicopatologia della personalità, trasversale a tutti i funzionamenti e visibile a qualsiasi età, a lenta e progressiva strutturazione, che insorgerebbe proprio in risposta all’estremo tentativo di allinearsi ad una società contemporanea altrettanto estrema.
Una realtà digitale e social che avrebbe il potere secondo noi di distorcere i normali processi di sviluppo e di apprendimento a causa di un alterato rapporto con le dimensioni del tempo, dello spazio e del linguaggio, elementi strutturali di un sano sviluppo psichico.
Nello specifico, un’alta velocità di elaborazione delle informazioni, una ridotta relazione fisica con gli “oggetti” ed una semplificazione del linguaggio tra le persone favorirebbero una condizione umana nuova caratterizzata da una progressiva forma di impoverimento dell’esperienza di sé e della relazione, conseguenza di un modo diverso di esperire ed apprendere tipico dell’era digitale.
Questo diverso modo di fare esperienza del mondo fisico e sociale è in sostanza un “non modo di fare esperienza”, e per tale motivo potremo anche introdurre il termine di “dissociazione dal momento presente”.
Il momento presente, riprendendo le intuizioni di Stern (2005; 2011), può essere concettualizzato come una dimensione temporale soggettiva (Kairos), frutto di una dilatazione del tempo cronologico (Cronos). Rappresenta un’unità di senso globale e circoscritta e permette una percezione immersiva nella realtà fenomenica della durata oggettiva che varia tra 1 e 10 secondi in cui l’individuo vive un’esperienza soggettiva cosciente.
I momenti presente possono essere momenti presente semplici se rivolti su di sé o momenti incontro se vissuti all’interno di un contesto relazionale. I momenti presente semplici permettono una vera esperienza di centratura su di sé vitale e rigenerante e, allo stesso tempo, la condizione ottimale per un sano sviluppo della personalità, mantenimento di benessere psicologico ed autoregolazione. I momenti incontro, invece, sono momenti presente di “essere con” in cui si fa esperienza di intersoggettività e di co-costruzione di nuovi asset motivazionali ed affettivi emergenti.
La sempre maggiore difficoltà delle persone di accedere ai propri momenti presente e di “stare” negli stessi equivale a non “essere nel flusso” e sancisce una nuova condizione d’infelicità umana mai vista prima. Non fare esperienza fenomenica di sé e della relazione con l’altro non permette la nascita di una più matura coscienza riflessiva ed il mantenimento di un senso di vita costante ricco di nuovi significati direzionali.
Si hanno così due possibili percorsi alternativi, entrambe pericolosi: rivolgere costantemente l’attenzione ad un passato nostalgico che blocca l’azione ed il cambiamento (atteggiamento depressivo) o strizzare l’occhio al futuro in maniera idealizzata e maniacale, senza una progettualità sostenibile (atteggiamento narcisistico-maniacale).
Qualsiasi posizionamento in un tempo diverso da quello presente pone l’uomo fuori da una centratura su di sé e da un proprio flusso interno in continuo divenire, unico e solo stato mentale che permette di costruire resilienza a qualsiasi forma di psicopatologia e di promuovere un vero benessere psicologico.
3. Rivoluzione digitale, meccanismi dissociativi e processi di deumanizzazione
Il passaggio dall’analogico al digitale avvenuto agli inizi del nuovo millennio rischia a tutt’oggi di essere un vero e proprio punto di non ritorno capace di mettere in crisi quelle che sono le fondamenta e le specificità della natura umana.
Alcuni filosofi dei secoli precedenti avevano già intuito l’inizio di questo possibile processo degenerativo, malgrado non avessero un substrato scientifico attraverso il quale sostenerlo (Marx, 1844; Marcuse, 1964). Oggi però gli studi neurofisiologici sul trauma e la dissociazione, le neuroscienze affettive e la neurobiologia interpersonale confermano come alcune caratteristiche dell’interazione individuo ambiente specifiche della società contemporanea, se non controllati, possano essere importanti fattori di rischio per un sano sviluppo della personalità.
Il modello marxista (1844) già nelle prime forme di industrializzazione capitalistica aveva messo in guardia dai pericoli del cosiddetto fenomeno dell’alienazione, concetto preso dall’impianto filosofico hegeliano. Il lavoro massacrante delle fabbriche in termini di orari estenuanti, la ripetitività e gli automatismi delle mansioni quotidiane, il poco tempo disponibile utile solo per soddisfare bisogni primari, la troppa distanza tra la propria attività lavorativa ed il prodotto finito che viene immesso nel sistema capitalistico e strappato al lavoratore sono tutti esempi di un allontanamento da se stessi e da alcune specificità tipiche della natura umana.
Nel secondo dopoguerra, Marcuse (1964) nella monografia “L’uomo ad una dimensione” riprende le tesi marxiste ritenendo come nella società industriale avanzata la tecnologia possa rivelarsi un pericolo per l’uomo relegato sempre più ad eseguire compiti ripetitivi a scapito del suo pensiero critico portandolo a ricercare il consenso ed una desiderabilità sociale, generatrici di falsi bisogni. Dunque, Marcuse pone l’accento sulla perdita dell’uomo della sua libertà di pensiero e di scelta. Illuso di poter essere libero, si ritrova ad avere più tecnè e meno competenze, stretto in una forte pressione sociale nell’adeguarsi ad un stile di vita che soddisfa solo bisogni capitalistici di consumo.
In questo articolo portiamo avanti la tesi che il passaggio dall’analogico al digitale, l’avvento dei social, il fenomeno della globalizzazione e non ultimo la nascita dell’intelligenza artificiale possa sancire pericolosamente ad oggi la conclusione di un processo dissociativo di massa che, se non controllato, investirebbe l’uomo nella sua interezza e profondità. Un processo che potremo definire di deumanizzazione, avviato circa due secoli fa, e ad oggi entrato nel vivo a causa dello sviluppo di un differente paradigma di società con caratteristiche mai viste prima.
Malgrado molte nuove tecnologie stiano semplificando i compiti dell’uomo, mostrandosi al suo servizio, non si colgono gli effetti collaterali di questo cambiamento epocale. In particolare, nel presente lavoro, sosteniamo come ad oggi un ingente corpus di conoscenze neuroscientifiche ci possa dimostrare che l’utilizzo pervasivo e costante del digitale nella vita di tutti i giorni abbia un così alto potere dissociativo tale da riuscire a distorcere in senso involutivo quelle dimensioni strutturali del vivere umano, quali lo spazio, il tempo ed il linguaggio, fondamentali per il sano sviluppo delle funzioni psichiche e dei processi identitari.
Alterando i parametri dello spazio, del tempo e del linguaggio si altera il modo di fare esperienza di sé e degli altri al ribasso sostituendo un senso della realtà vitale e creativo con una percezione devitalizzata e stereotipata della stessa. Da esperienze di relazione povere e sbiadite si favorisce lo sviluppo di un’architettura psichica deficitaria nelle sue fondamenta, contribuendo a far crescere individui con sempre meno capacità riflessive e di pensiero critico, più superficiali affettivamente ed isolati gli uni dagli altri. Rispetto a questo ultimo punto, ne è un esempio il diffuso atteggiamento di non-essere all’interno di momenti irripetibili dell’infanzia e d’attività cariche di significato emotivo con i bambini quali il gioco, l’allattamento, le fasi dell’addormentamento perché occupati nell’utilizzo di telefoni cellulari e dispositivi elettronici, traducendosi in mancati rispecchiamenti emotivo-affettivi.
La ricaduta complessiva di tutto questo è il progressivo impoverimento di quelle che sono le facoltà intrinseche della natura umana, dunque un processo di lenta ma inesorabile deumanizzazione della persona che rischia a questo punto in poi la trasformazione in qualcosa di altro.
Di seguito, descriveremo le caratteristiche tipiche di questa società digitale e social, i relativi meccanismi eziopatogenetici e le conseguenti alterazioni strutturali delle dimensioni tempo, spazio e linguaggio responsabili di questo lento ma progressivo processo di impoverimento della dimensione psichica umana.
3.1 Accelerazione del tempo
La richiesta di una maggiore produttività e di risultati da parte di una società a trazione narcisistica richiede all’uomo di performare sempre meglio nel minor tempo possibile.
L’alta velocità di elaborazione delle informazioni che il mondo produttivo impone non impatta solo sul contesto lavoro ma ha ricadute anche su tutte le altre dimensioni dell’esistenza dando alla luce un nuovo e disfunzionale stile di vita chiamato multitasking. Così facendo siamo spinti in sostanza ad essere contemporaneamente lavoratori performanti, perfetti genitori e partner amorevoli, il tutto in un adeguato stato di salute e magari sapendoci ricavare anche lo spazio per una vita sociale e personale appagante.
La tecnologia digitale sostiene questa vita sempre più in parallelo attraverso l’utilizzo di app e piattaforme social che consentono di semplificare tante operazioni quotidiane e con pochi touch portare avanti svariati task di tutti i giorni. Con uno smartphone possiamo leggere le e-mail di lavoro e controllare una spedizione di un pacco in consegna, e allo stesso tempo, whatsappare un amico e navigare sul web per leggere una notizia o prenotare la prossima vacanza. Lo stato di costante accelerazione e la possibilità di stare su più cose contemporaneamente e continuativamente produce la sensazione di controllo onnipotente e di espansione del proprio sé Illimitata, rinforzando tratti narcisistici della personalità e favorendo l’insorgenza di ciclotimie e bipolarità del tono dell’umore.
C’è sempre meno possibilità di rallentare ed aprire così spazi di vita destrutturati, scevri da obiettivi, scadenze e responsabilità. Lo spazio destrutturato è uno spazio potenziale alla Winnicott (1974) che ha la funzione di rigenerare mente e corpo, e di dare vita a nuove idee. Come la terra deve riposare per rimanere fertile e accogliere altre piantagioni, anche noi umani abbiamo necessità di fermarci e non avere nulla tra le mani per poter poi ripartire con progetti nuovi e nuova ninfa ritrovata.
Lo stress cronico è quindi uno stato permanente di alta velocità senza alcuna via di uscita, la resilienza invece la capacità di decelerare e trovare uno spazio altro.
Questa accelerazione del tempo esterno (Kronos), specificità dell’era digitale, determina una desincronizzazione o mancato allineamento con quello che possiamo chiamare tempo interno (Kairos), un tempo quest’ultimo più lento che scorre dentro di noi e sostiene il ritmo e la velocità giusta con la quale pensare, vivere sentimenti e costruire relazioni significative.
Tale disallineamento spinge Kairos a tentare di ridurre il gap e ad aumentare a sua volta la propria velocità, producendo uno scadimento della funzionalità dei più importanti processi psichici caratteristici dell’uomo quali la riflessività, l’autoanalisi e le capacità di pensiero critico e giudizio, la maturazione e la mentalizzazione dell’affettività, la profondità degli investimenti interpersonali.
Innanzitutto, accelerare il proprio tempo interno per iperadattarsi ad un tempo esterno che corre troppo veloce vuol dire vivere nell’affannosa rincorsa di continui adempimenti. Ciò implica un minor tempo per affrontare i problemi in maniera analitica e generare soluzioni originali minando la propria capacità di scelta e giudizio rispetto le situazioni e gli eventi.
Inoltre, tale accelerazione determina anche un generale impoverimento della nostra vita affettiva, fino a giungere ad un vero e proprio analfabetismo emotivo. Non abbiamo più tempo di “stare nelle emozioni”, dare loro un significato e trasformarle in stati affettivi duraturi, far crescere dentro di noi sentimenti, costruire motivazioni, elaborare i lutti, tollerare le separazioni, imparare dal dolore. Insomma, in un’incapacità di tal genere le emozioni tendiamo o ad agirle con comportamenti impulsivi e non produttivi o ad evacuarle nella psicosomatica o ad evitarle divenendo sempre più coartati ed anestetizzati. Questo impoverimento del proprio mondo interno equivarrebbe ad una sorta di immaturità affettiva permanente che non ha possibilità di evoluzione.
Conseguenza di ciò è un ripiegamento narcisistico, una scarsa motivazione alle relazioni che non permette di dare il giusto valore alla costruzione di legami ed alla condivisione, alla ricerca di aggregazione con le persone e di affiliazione sociale. Non c’è più tempo di condividere, c’è tempo solo per performare e questo lo si fa meglio e più velocemente da soli.
3.2 Riduzione della fisicità
La svolta digitale e l’alta velocità che oggi la società impone in tutti i settori della nostra vita ha spinto le persone a ridurre la “fisicità” con le persone, con gli oggetti e con le attività praticate. Questa maggiore distanza fisica con l’Altro non consente più di conoscere dal di dentro, ma altresì di rimanere sulla superficie delle cose. Si fanno sempre meno propri odori, sapori, colori, sensazioni tattili.
Le memorie delle generazioni dei boomers, X e dei primi Millennials, appartenenti ad un mondo analogico, erano intrise di sensorialità e propriocettività. Le immagini di un paesaggio visto fuori dal finestrino di una macchina, la meccanica dei giochi da tavolo, i gusti forti dei piatti classici appena sfornati dalle cucine delle nostre nonne, l’odore delle cantine o delle soffitte ove ci si rifugiava per giocare sono tracce che negli ultimi venti anni hanno lasciato il posto all’onnipresenza dei tablet e dei telefonini nelle attuali generazioni Z e Alfa, o diventati sbiaditi ricordi per chi li ha vissuti.
Il fare esperienza della fisicità delle cose nella percezione e nell’azione rappresentativa cede il passo il più delle volte ad un muoversi afinalistico causato solo da un principio di scarica tensiva legata allo stress. Per questo sentiamo l‘impulso di iscriverci ogni anno all’ennesimo corso di fitness ad alta intensità inserito nell’unica ora libera tra l’uscita da lavoro e il ritorno a casa o incastrato al volo tra due o più appuntamenti. Nulla che abbia la minima sembianza di un fare creativo e di azioni finalizzate a costruire spazi di gioco ove sperimentare e riflettere cercando un contatto profondo con noi stessi e con il nostro corpo.
Un altro modo per compensare la sempre più scarsa attitudine a non fare esperienza fisica del mondo è il simulare di fare o la presunzione di sapere, attraverso la costruzione di teorie, credenze e preconcetti su tutto tali da poter anche essere pronte soluzioni narcisistiche di conversazione per ogni situazione sociale che si rispetti. Qui il mondo del web mette a disposizione siti che ci fanno immaginare di stare in una miriade di posti in cui non siamo mai stati, applicazioni che ci arredano casa prima ancora di essere entrati in un vero negozio di oggettistica, store che ci spingono a comprare vestiti senza averli mai provati; il tutto condito dall’intelligenza artificiale che ci illude di essere medici, psicologi e qualsiasi altra cosa vorremo essere e non saremo mai.
La percezione e l’azione finalizzata rischiano ad oggi di perdere il primato a favore di una bulimica e fatua attività di acculturazione ed intellettualizzazione basata sull’accumulo di sempre maggiori quantità di dati e di un sapere nozionistico standardizzato e orientato dall’alto. La crescita dei lavori intellettuali a discapito dei mestieri ne è la testimonianza e sempre più i giovani adulti ambiscono a ruoli di coordinamento e gestione aziendale passando sempre meno da esperienze tecnico operative di gavetta. Sappiamo utilizzare i più complessi programmi informatici ma rischiamo di dimenticare come si scrive, sappiamo fare il caffè mettendo le cialde dentro una macchinetta ma potremo avere difficoltà a saper utilizzare una moca assaliti dal dubbio se mettere l’acqua prima o dopo.
Questa più povera conoscenza del mondo fenomenico ci porta ad essere lentamente ma inesorabilmente “ignoranti” senza sapere di esserlo, incoraggiando la crescita di un pensiero omologato a discapito di uno critico. La conseguenza di ciò è che l’ignoranza e la progressiva perdita del ragionamento ci rende più condizionabili e manipolabili dal potere della persuasione e delle leadership carismatiche, e meno intelligenti nell’accezione tanto a noi cara. Siamo così portati a credere in modo acritico a qualsiasi teoria esposta da guru senza nè arte nè parte e spesso senza scrupoli, perché non si è sviluppata la capacità e l’intuito personale a questioni generali e/o particolari.
Rispetto proprio a quest’ultimo punto è oramai acquisizione scientificamente consolidata che solo un’adeguata capacità esplorativa del mondo fisico circostante ed una buona propriocettività potrà permettere al bambino, futuro adulto, di costruire una solida architettura cognitiva e mettere in campo comportamenti cosiddetti “intelligenti”. Le osservazioni cliniche e sperimentali di Stern, raccolte in Il mondo interpersonale del bambino (1987), dimostrano proprio l’esistenza di un particolare processo innato, chiamato percezione amodale, che consiste nella capacità di integrare le informazioni sensoriali provenienti da diverse modalità (tatto, vista, udito) facendole confluire in schemi comuni ed in un’esperienza unificata dotata di coerenza. Tale predisposizione permette, dunque, di costruire rappresentazioni coerenti ed integrate della realtà favorendo la nascita di una costanza degli oggetti ed un senso del sé emergente.
Dunque, un sano sviluppo cognitivo deriverebbe proprio da un sano sviluppo motorio e percettivo, un bambino competente a livello propriocettivo e sensoriale sarà molto facilmente un adulto anche intelligente nel modo in cui tutti lo consideriamo. In altre parole, per diventare brillanti professionisti e fare delle fulgide carriere dovremo ricordarci di essere prima buoni atleti e persone affettivamente equilibrate.
Inoltre, fare meno esperienza fenomenica della realtà ha come ulteriore ricaduta quella di non sfruttare un’altra forma di conoscenza, intuitiva, veloce e più autentica, che è il sentire emozionale. Ci emozioniamo sempre di meno e per meno tempo, anzi ci sforziamo o addirittura simuliamo di farlo perché i processi emozionali per attivarsi hanno bisogno della prossimità, della presenza, del contatto. Le emozioni, inoltre, facilitano sia i processi di apprendimento che quelli motivazionali, dunque meno vita emotiva meno capacità di apprendimento e meno voglia di apprendere. Così, tutto scorre con più facilità nella quotidianità delle persone non lasciando tracce emotive, né gioie né dolori, e le sofferenze non insegnano nulla. Insomma, un’esistenza come direbbe Bion senza memoria e senza desiderio (Ibidem, 1972).
Questo minore rapporto con la fisicità ha cambiato anche l’esperienza con il nostro corpo. Rapportarsi fisicamente con le persone, con le cose e con le attività vuol dire non solamente avere una più profonda conoscenza del mondo ma anche di noi stessi e del proprio sè corporeo. Di contro, il corpo viene sempre più utilizzato come contenitore di emozioni negative derivanti dallo stress quotidiano oppure strumento immediato per ritorni narcisistici compensatori, e sempre meno conosciuto sia nelle sue vere potenzialità realizzative che nei suoi limiti. Ciò comporta che ci muoviamo meno e meno intelligentemente nello spazio d’azione, agiamo molto spesso entropicamente e senza progettualità sprecando opportunità e chance di cambiamento. Notiamo sempre meno persone in armonia con il proprio corpo e sempre più corpi senza anima, alla ricerca di un conformismo estetico che premia l’involucro e non il contenuto, a scapito di un sano stato di salute. Da qui, l’aumento esponenziale di disturbi somatoformi, espressione di una cattiva gestione corporea e fattori di rischio per patologie ben più gravi che limitano la qualità di vita.
Dispositivi smartphone stanno cambiando anche la vita di relazione ed il modo di stare insieme con effetti a lungo termine involutivi ed ancora sottovalutati. Telefonini e tablet si sostituiscono sempre più alle conversazioni ed agli scambi verbali tra le persone di tutte le età impoverendo la comunicazione e spegnendo la curiosità verso l’altro. Non è infrequente vedere una tavolata di bambini in pizzeria che, in attesa dell’ordine, invece di voler intraprendere una conversazione, imbastire una partitella a carte o avere il desiderio di mostrare l’ultimo gioco acquistato, siano assorti da video intrattenimento su Tik Tok o scelgano di giocare a videogiochi on line con il compagno vicino di tavolo. Il risultato dieci bambini connessi che credono di divertirsi tutti insieme guardando ognuno il proprio dispositivo.
La sala d’attesa del medico di base, la fermata del tram, la fila alla posta, un viaggio in treno rappresentavano sicure occasioni di conoscenza nel mondo analogico. Oggi situazioni incerte ed imprevedibili e spazi interstiziali come questi sono temuti ed evitati perché fonte d’ansia. L’Altro non conosciuto non è più motivo di curiosità e di chance evolutiva ma minaccia ad un’equilibrio psicologico fatto di immobilismo e parassitismo esistenziale che si vuole mantenere a tutti i costi senza assunzione di alcun rischio d’impresa.
3.3 Semplificazione del linguaggio
L’alta velocità di elaborazione delle informazioni e la riduzione della fisicità con gli oggetti stanno cambiando anche le intenzioni comunicative ed il modo di interagire nella direzione di una progressiva semplificazione e standardizzazione del linguaggio. Tale fenomeno di massa investe un po’ tutte le tipologie di relazioni interpersonali da quelle marcatamente sociali a quelle di natura più intima.
Semplificare vuol dire ridurre il repertorio di categorie linguistiche in rapporto alla complessità delle intenzioni comunicative, con la conseguente perdita mano mano delle sfumature di ciò che realmente proviamo o pensiamo e che vogliamo comunicare. La progressiva dissociazione tra quello che si percepisce dentro e quello che si esprime fuori può generare ancora più confusione emotiva e difficoltà a comprendere il proprio mondo interno, bloccando l’individuo ad una dimensione protomentale (e.g. Bion, 1972) e non incoraggiando lo sviluppo di un pensiero simbolico e di un‘affettività mentalizzata (Fonagy et al., 2002; Allen et al., 2006).
Standardizzare significa, invece, utilizzare un linguaggio più omologato per tutto e tutti con l’effetto metacomunicativo di dare meno profondità, specificità e personalizzazione alle nostre relazioni e legami. In altre parole, ci stiamo abituando, senza rendercene conto, ad appiattire affettivamente e livellare in basso i nostri investimenti oggettuali.
Whatsapp e tutte le applicazioni di messaggistica similari hanno sdoganato questo processo. L’emoticon è l’esempio caratteristico del modo in cui si riproducono in maniera stilizzata le principali espressioni facciali che esprimono un’emozione. Sempre più faccine e cuoricini rappresentano la principale modalità semplice e stereotipata di comunicazione tra le persone, sostituendosi ogni giorno alla fatica e all’impegno di dover pensare e comporre frasi di senso che colgano una maggiore profondità di quanto vissuto.
La semplicità e la velocità con la quale crediamo di comunicare intenzioni, emozioni e pensieri autentici attraverso emoticon, abbreviazioni, neologismi e frasi stringate imbavaglia la ricchezza del mondo interiore restituendo un’immagine di noi sempre più povera, fatta di contenuti primitivi, grossolani e banali, e trasforma l’unicità delle relazioni in rapporti di natura commerciale.
Semplificare e standardizzare il modo di parlare e scrivere senza distinzioni di persone e contesti equivale a trasformare il linguaggio da una complessa funzione simbolica a servizio della relazione ad una più semplice e primitiva funzione strumentale di stampo narcisistico. Ed abituandosi ad utilizzare il linguaggio come mero utensile comunicativo ci si avvia verso una progressiva dissociazione tra emozioni, pensiero e linguaggio. Il linguaggio non rappresenta più un organizzatore del pensiero ed il pensiero non più un organizzatore delle emozioni che rimangono contenuti grezzi e privi di significato non contribuendo ad arricchire la nostra vita interiore.
Semplificare e standardizzare il linguaggio vuol dire perdere progressivamente anche la voglia di raccontare e raccontarsi, una perdita di motivazione all’incontro, alla condivisione, a costruire significati nella relazione. Le persone motivate nella vita sono quelle che fanno esperienza dell’Altro non conosciuto ove può emergere in ogni istante qualcosa di nuovo. Non a caso le più profonde motivazioni umane sono intersoggettive e si contrappongono a quelle narcisistiche che hanno sempre una natura difensiva (Caporale e Battisti, 2024). Perdere asset motivazionali nella vita equivale a spezzare un filo rosso dentro di noi e tra noi ed il mondo con pesanti ricadute sulla salute mentale e la qualità di vita.
4. Nuovi processi dissociativi strutturali, impoverimento del sé e della relazione, psicopatologie attuali del momento presente
Per riassumere quanto affermato fino ad ora, le peculiari caratteristiche della società attuale digitale e social a nostro avviso stanno generando nuovi fenomeni dissociativi di massa causati dall’alterazione delle dimensioni tempo, spazio e linguaggio.
Tali fenomeni dissociativi, rientranti nel meccanismo di quella che noi chiamiamo dissociazione iperadattiva, sono da considerarsi strutturali perché hanno la capacità di impoverire l’esperienza di sè e della relazione deteriorando (livellando in basso) i principali processi cognitivi, affettivi e di investimento oggettuale trasversali a qualsiasi funzionamento di personalità. Questa involuzione psichica in atto diviene una sorta di progressiva deumanizzazione che espone l’individuo a nuove forme di rischio psicopatologico.
I sintomi emergenti che osserviamo da più di un decennio legati a questa forma di dissociazione strutturale possono essere ricondotti a quella che noi oggi chiamiamo una condizione di stress cronico costituita da:
• sentimenti di vuoto identitario e mancanza di direzionalità, disturbi dell’immagine corporea, insicurezza ed inadeguatezza personale, ansia generalizzata, costanti oscillazioni del tono dell’umore, disturbi del sonno, irritabilità, scarsa tolleranza alla frustrazione e ai tempi d’attesa, coartazione affettiva, costruzione e mantenimento di relazionali superficiali e strumentali, tendenza al ritiro e all’isolamento, indifferenza sociale, assenza di progettualità, insoddisfazione generale, senso di inutilità e/o fallimento immotivato nella maggior parte delle aree di vita (professionale, sentimentale, sociale), pensiero concreto, tendenza allo sviluppo di disturbi somatoformi ed angosce ipocondriache;
• i sintomi hanno caratteristiche di maggiore egosintonicità, mimetismo e molto spesso viaggiano in una modalità sotto-soglia clinica per un periodo di tempo di almeno 6 mesi e con andamento ciclico;
• la condizione di disagio può insorgere a qualsiasi età ed in ogni tipo di funzionamento di personalità;
• la sintomatologia non è giustificata dalla presenza di disturbi nevrotici e funzionamenti narcisistici, e non è la conseguenza di una psicopatologia dell’età evolutiva da trauma relazionale precoce.
Al di là degli aspetti sintomatologici franchi e dei sottostanti processi psichici compromessi, una caratteristica centrale di questa condizione è la progressiva perdita della capacità di generare significato. La capacità di creare significati è infatti la specificità umana alla base della costruzione di un’immagine di sé stabile ed integrata, della ricerca di motivazione e direzionalità, di una vita fatta di relazioni autentiche ed affettivamente valide, quindi di un benessere psicologico costituito da un senso di coerenza e congruità del sé, di agentività ed efficacia personale, di vitalità e tensione progettuale.
Tale scarsa capacità simbolico-rappresentazionale, a propria volta, nasce dal sempre maggiore impedimento, causato dallo stile di vita digitale e social, di accedere e vivere i momenti presente, stati mentali essenziali per la costruzione di un sano apparato psichico e, dunque, di un adeguato senso di vitalità e pienezza della propria esistenza. Stare nei momenti presente vuol dire sentire maggiormente il nostro tempo interiore che scorre e fare dunque una piena ed immersiva esperienza di sé.
Da questa particolare centratura sul presente fenomenico nasce una più matura coscienza riflessiva, generatrice di significati profondi, e nuove capacità autoregolative, e si vengono a costituire momenti incontro frutto d’intersoggettività emergenti. Solo in queste finestre temporali di mutua sintonizzazione, si apre uno spazio potenziale/disponibile in cui possono nascere nuove motivazioni. Le motivazioni sono direzionalità che si concretizzano in progetti ed obiettivi di vita a loro volta creativi e generativi.
5. La psicoterapia psicodinamica integrata come trattamento efficace di prevenzione ed intervento sui momenti presente e momenti incontro
Il nostro approccio di psicoterapia psicodinamica integrata (PPI) si mostra sensibile ed efficace anche negli interventi di prevenzione e trattamento riguardanti sintomi di stress cronico riconducibili ai fenomeni dissociativi strutturali descritti.
Nello specifico, il nostro metodo PPI, in questa fattispecie, avrà come obiettivo il potenziamento di quelli che sono i momenti presente ed i momenti incontro sia in termini quantitativi che qualitativi. Nella PPI, tali target terapeutici sono riconducibili ad una fase implicita che noi chiamiamo fase 1 (Caporale e Battisti et al., 2023a).
Rinforzare la costruzione ed il mantenimento di momenti presente equivale a lavorare sullo stare nel qui ed ora insegnando ai nostri pazienti ad ampliare l’esperienza di sé attraverso il rallentamento del proprio tempo interno ed il direzionamento dell’attenzione sulle dimensioni percettivo-sensoriali ed emozionali.
Allo stesso modo, favorire lo sviluppo di momenti incontro vuol dire riattivare all’interno di una dimensione presente uno spazio intersoggettivo vitale e creativo, attraverso l’azione riparatrice della relazione terapeutica, e far ripartire motivazione e direzionalità.
I traumi relazionali precoci creano nello sviluppo rotture e disconnessioni tra parti di sé e tra sé e gli altri in termini di paura, sfiducia, vergogna, umiliazione, colpa, generando un collasso dell’intersoggettività. Anche un costante e continuo stile di vita dissociativo, incoraggiato dalle caratteristiche della società odierna digitale e social, favorisce, in un’altra maniera altrettanto profonda, una frattura del sè e della relazione. È proprio la costruzione di un nuovo campo intersoggettivo strutturante tra terapeuta e paziente che permetterà la riparazione ed il riavvio dei processi integrativi di parti della personalità e delle dimensioni intersoggettive umane.
La centratura sul qui ed ora e l’attivazione di una nuova intersoggettività possono avvenire solo se la psicoterapia insegni al paziente a riallinearsi al proprio tempo interno, a riappropriarsi della fisicità del mondo fenomenico e a difendere il linguaggio da uno scadimento della sua funzione simbolica. In altri termini, la PPI mira a sviluppare negli individui una resilienza al mondo contemporaneo attraverso il recupero di una prospettiva di vita più analogica.
Il dispositivo di setting PPI è costruito per favorire tutto questo. Il compito del terapeuta è sintonizzarsi sui tempi di apertura ed elaborazione del paziente rispettando i silenzi, non giudicando le scelte, dimostrando disponibilità ed interesse ai racconti. Allo stesso modo, la costante presenza fisica di entrambi alla relazione genera un’abitudine che diventa riferimento, sicurezza, protezione, conforto. E il tutto viene trasformato insieme in una gestalt di significato attraverso un continuo lavoro di mentalizzazione di ciò che si sta sperimentando di volta in volta nello spazio vitale e creativo dell’incontro terapeutico.
In sintesi, possiamo affermare che, sebbene uno degli aspetti ancora centrali nell’impianto PPI sia la relazione di transfert, in una prima fase e anche per gran parte del processo si debba considerare più importante la relazione reale che si va instaurando tra terapeuta e paziente.
In psicopatologia dello sviluppo, solo una nuova relazione psicoanaliticamente empatica può rappresentare l’alternativa valida e funzionale ad un’altra interiorizzata di origine traumatica. Altresì, nella gestione terapeutica dei nuovi fenomeni di dissociazione strutturale, descritti nel presente articolo e legati alle caratteristiche stressogene e dissociative della società odierna, la relazione reale permette una sorta di rieducazione o rialfabetizzazione percettiva, emotivo-affettiva e cognitivo-comportamentale più in linea con un sano sviluppo della personalità ed un duraturo benessere psicologico.
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