Definizione della PPI

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Tratto da La Psicoterapia Psicodinamica Integrata: le basi e il metodo

DEFINIZIONE DELLA PPI

di Giuseppe Lago

Per molto tempo, si è voluto sottolineare la distinzione della Psicoterapia dagli altri interventi psicologici e psichiatrici, mettendo in evidenza che si tratterebbe di una cura basata unicamente sulla parola.
E’ inevitabile ricordare quanto questa accezione sia stata condizionata dal modo con cui Anna O., considerata la prima vera paziente della Psicoanalisi nascente, amava connotare l’intervento del suo medico Breuer, da lei molto atteso.
Talking cure è rimasto quasi come l’imprinting di una definizione, teso a demarcare con chiarezza il campo di chi opera parlando e il campo di chi agisce anche senza parlare.
L’idea che bastasse esplicitare e verbalizzare i contenuti mentali del paziente, all’inizio creduti reminiscenze che fanno soffrire, poi solo rimozioni di contenuti troppo angoscianti e orridi per essere accettati, ha rappresentato per molto tempo il cardine della Psicoanalisi come cura.
Si pensava che la parola fosse l’unico simbolo mentale, mediante il quale si sarebbe rimesso in ordine qualcosa di instabile e sregolato, legato alla natura dell’uomo, una natura creduta assai ambivalente, continuamente combattuta tra istanze biologiche, tali da rendere l’essere umano simile a un animale, e istanze spirituali, tali da spingere l’uomo verso quintessenze di vita divina o mistica in genere.
Del resto, è risaputo che due colossi del pensiero moderno: Illuminismo e Romanticismo, si combattevano nel retroterra della nascita della Psicoterapia.
Anche ai nostri giorni, la lotta si riaffaccia, tradotta in altri termini, tra Positivismo e Meccanicismo da una parte, Idealismo e Strutturalismo dall’altra.
La Psicoterapia, appena nata, dovrà fare i conti con questo conflitto epistemologico, tirata continuamente da una parte e dall’altra.
Eppure, come chiaramente dimostrato da Ellenberger (1971), la Psicoterapia nasce in campo medico, strappata è vero, alla magia, alla superstizione, alla religione; ma nasce come fare, non come parlare.

 

Le rapport

Liebault, Bernheim, Janet parlano poco e agiscono molto tramite il rapporto ipnotico, anzi le rapport per antonomasia.
Ciò che Freud apprende a Parigi, negli anni della giovinezza, non è la parola terapeutica ma il fare e il dare, che in realtà è un indurre una trasformazione in chi è rimasto vittima di un intoppo della mente. Nel transfert, termine ipnotico, Freud introduce poi tutta la saggezza appresa negli anni della sua formazione e del sodalizio con Breuer.
L’ipnosi, però, ha un difetto: non è spiegabile. Oltre un certo livello fenomenologico, nel quale è indubbia l’importanza dell’induzione eterodiretta sulla trasformazione del soggetto, l’ipnosi non va.
Certo, c’è la relazione, le rapport; ma, quando dopo tanti anni lo stesso Freud ritornerà sull’argomento (1921), non potrà che ricorrere a chiavi di lettura piuttosto banali, come l’innamoramento, l’idealizzazione paterna etc., dimostrando che per comprendere l’ipnosi non è sufficiente la visione diadica ma, come poi farà Bion (1952), occorre avere una visione gruppale.
Dunque, per sfuggire ai fumi e alle vaghezze del transfert ipnotico, Freud stabilisce i cardini della psicoterapia contemporanea, limitando il setting del transfert psicoanalitico nella confortevole atmosfera del suo studio e limitando, altresì, l’osservazione del soggetto nella relazione diadica, in presenza di fantasmi familiari che costellano uno spazio interno, troppo angusto, a nostro avviso, per essere associato alla tragicità corale e demoscopica di Sofocle.
In tutto questo sfuggire all’oppressione massificante del carisma ipnotico, Freud va prima alla ricerca di una base neurofisiologica per giustificare ciò che, a tutti gli effetti, egli vuole che sia un intervento medico, derivato da conoscenze scientifiche.
Sappiamo che il “Progetto” (1895) verrà abbandonato ma, in modo assolutamente geniale, l’attenzione verrà concentrata da Freud sui sogni e sulla conoscenza che da essi proviene.
Inevitabilmente, rivolgendosi al materiale più a portata di mano, testimonianza di una vita interna, negata dal positivismo dell’epoca, Freud scopre la strada per sottrarsi alla terapia dell’azione, che l’avrebbe costretto a produrre una teoria credibile sul piano biologico, e si attesta sulla terapia della parola, ossia sulla interpretazione, ricollegandosi così alla storia della cura mentale cominciata nei templi di Epidauro e Coos, proprio con la divinazione dei sogni. Anche qui, però, Freud trascura il valore culturale e sociale dell’usanza divinatoria sui sogni e continua a inseguire l’ambizione di rimanere ancorato a concetti accettati dalla biologia del suo tempo.
Freud, “biologo della psiche” (Sulloway, 1979) coglie, con la stessa genialità dimostrata nel discorso sui sogni, quanto la sessualità veda riunite istanze biologiche e psicologiche, indissolubilmente legate e oggetto di controllo e timore da parte di tutte le società costituite. Il conflitto sessuale è anch’esso a portata di mano come i sogni, per gli adulti della sua epoca (e per il medesimo Siegmund). Freud si convince, pertanto, a considerare il desiderio insito fin dalla nascita, nella stessa natura umana.
Desiderio è la tendenza che anima la vita; è la libido che spinge per realizzarsi; che persegue la scarica pulsionale, senza vedere altro se non la propria soddisfazione. I sogni, il materiale a portata di mano di cui sopra, sono una dimostrazione del desiderio (Freud, 1915-17). La parola che interpreta traduce in linguaggio gli impulsi ciechi e inarrestabili di una energia che anima l’essere umano e lo scuote senza sosta, a discapito di quanto egli tenti di costruire con la coscienza e il comportamento razionale.
Ecco la talking cure di Freud! È la parola che deve imbrigliare e ridurre all’obbedienza un monstrum senza forma, essenza insospettabile di chi sembra molto evoluto. Il desiderio sessuale col suo passaggio all’atto, e la libido malcelata e turbolenta, si prestano perfettamente a rappresentare il motore della mente umana, inutilmente rivestito e guarnito da secoli di cultura e tradizioni. Solo la parola dell’interprete dei sogni ha l’acume di cogliere quanto lo stesso soggetto ignora, restituendogli una consapevolezza che lo educa ma non lo rende libero dal desiderio.
La parola, quindi, si esercita contro la spinta sessuale, ossia si oppone a una tendenza al passaggio all’atto che assimila l’umanità al mondo naturale, il quale emerge trasversalmente, nella personalità umana nonostante secoli di storia e fiumi di esperienza passati sotto i ponti.
Eppure Freud arriva a intuire che la parola non può rappresentare l’unica forma di pensiero capace di opporsi al mondo pulsionale cieco, collegato ancestralmente alle origini stesse della vita.
L’idea che l’inconscio non sia solo un “crogiuolo di eccitamenti ribollenti” (Freud, 1922), ma anche pensiero, attraversa la mente di Freud (1911) ma non attecchisce. Forse, l’idea di un Pensiero Inconscio avrebbe richiesto una teoria dello sviluppo che spiegasse come tale pensiero nasce ed evolve. Questo avrebbe comportato il dover riaffrontare il discorso neurofisiologico, abbandonato a causa degli strumenti ancora rudimentali a disposizione.

 

La Metapsicologia

È così che la Metapsicologia prende il posto della Psicologia, ossia la parola cerca di schematizzare una materia informe, lasciata volutamente nel vago, e nel fumo dei secoli che l’avevano intuita senza comprenderla. La parola inconscio (Es) abbraccia un contesto impreciso e inquietante, che ha più a che fare con il fantastico, il mistico, il magico.
Il buon Freud si fa in quattro per mantenere una prospettiva darwiniana e socioantropologica, al fine di sfuggire al rischio di costituire una nuova religione. Il concetto di pulsione, a metà strada tra il biologico e lo psicologico, è il primo compromesso teorico che consente a Freud di stabilire un percorso di sviluppo che attraversi completamente la vita dell’uomo dalla nascita alla morte. L’ambizione di comporre un discorso a partire dal substrato organico neurale non abbandona Freud, fino a fargli trascurare qualcosa di altrettanto importante sul piano biologico (a differenza di come poi farà Bowlby, individuando la motivazione all’attaccamento, non senza aver elaborato la lezione kleiniana).
I concetti di pulsione e di libido colmeranno il vuoto assoluto delle conoscenze sullo sviluppo infantile e determineranno gli assunti di base della teoria freudiana, ma si riveleranno fragili colonne d’argilla sotto una costruzione splendida e ambiziosa.
L’abbandono della Psicologia scientifica per la Metapsicologia può essere considerato il limite del pensiero freudiano. Gli assunti di base prendono il posto delle evidenze scientifiche. I concetti di pulsione e libido, mimano meccanismi fisiologici ma nascondono la loro natura mitica e contribuiscono a confermare errori di fondo che soltanto la clinica e una vera ricerca sperimentale sapranno dimostrare.
Non è certo questa la sede per valutare i molteplici tentativi di dare uno statuto scientifico alla Psicoanalisi; ci interessa però sottolineare che, mentre la psicoanalisi freudiana ha dato luogo a molte psicoanalisi, spesso in insanabile dissidio teorico e culturale tra loro, la Psicoterapia ha costretto più d’uno ad abbandonare gli originari assunti di base, per spingerlo ad integrare conoscenze e dati provenienti da discipline diverse, e confrontarsi con risultati clinici osservati in contesti meno compiacenti e meno propensi all’enfasi carismatica.
E’ così che la terapia della parola o l’interpretazione si è arenata senza una metodologia seriamente appoggiata a comprovate evidenze.
Tali evidenze, per noi, non sono certo da ricondurre a un riduzionismo scientista ma neanche alla pretesa di una “scienza speculativa della psiche”, che si sottrae ad ogni verifica, non tanto dei risultati quanto degli assunti sperimentali di base, motivando il proprio atteggiamento con l’enorme patrimonio clinico derivante dal setting dell’analisi.

 

La Psicoterapia e l’ambiente psicoanalitico

La Psicoterapia, assai snobbata nel periodo d’oro della Psicoanalisi, riemerge invece da almeno un decennio come campo nel quale si incontrano paradigmi diversi, in funzione della cura del soggetto.
Gli steccati, costruiti da una idea precostituita della realtà mentale; alimentati talvolta dall’ambizione a detenere un potere culturale e in parte anche economico, cedono il posto, con la Psicoterapia, a strumenti teorici di varia natura, integrabili e in grado di sistematizzare una teoria della clinica.
Il grande banco di prova della psicoterapia psicoanalitica è stata la cura delle patologie mentali gravi, definizione generica ma più corretta del termine abusato, di psicoterapia psicoanalitica delle psicosi.
Sullo sfondo c’è la celebre affermazione di Freud circa l’impossibilità del metodo psicoanalitico di funzionare in caso di psicosi (Freud, 1932).
Se la cura psicoanalitica è possibile solo a chi accede all’Edipo (i nevrotici), sostiene Freud, coloro che rimangono in uno stadio pre-edipico (gli psicotici) non possono lavorare nel setting psicoanalitico.
Il discorso verrà ridimensionato dallo stesso Freud (1937) e soprattutto dalla scuola kleiniana, secondo cui l’Edipo è assai precoce e del tutto compatibile con la posizione schizo-paranoidea, sia essa del neonato che dello psicotico (Klein, 1928).
Insomma, gli anni d’oro della psicoterapia psicoanalitica sono fortemente caratterizzati da almeno due fattori:

  • superamento dell’indicazione freudiana sulla cura psicoanalitica per le sole nevrosi.
  • acquisizione delle nuove idee psicoanalitiche kleiniane circa lo sviluppo infantile, le quali danno estrema importanza alla relazione madre-bambino.

 

Non è certo il caso di parlare delle ripercussioni che l’emergenza di questi fattori scatena nel mondo ancora ristretto ed elitario della Psicoanalisi. Dobbiamo però accennare che più che le scissioni avvenute quando Freud è ancora in vita, conta ciò che avviene quasi intorno al letto di morte del maestro, con un ritardo rispetto al 1939 che è del tutto comprensibile, data la guerra.

E’ nel secondo dopoguerra, negli anni ‘50 del Novecento, che si consuma una vera battaglia per la detenzione del potere culturale nel mondo psicoanalitico, e a combatterla sono due donne: Melanie Klein e Anna Freud.
Il folklore di uno scontro al femminile, nasconde in verità un dissidio reale di natura scientifica e metodologica tra chi tenta di correggere presunti errori di impostazione di Freud e chi, iniziato a riti carismatici che si ripetono fino ai giorni nostri, deve dimostrare che non di errori si tratta ma di intuizioni poco elaborate, di concetti che i discepoli diranno di avere umilmente sviluppato sulla base del corpus teorico ineccepibile del maestro.
La battaglia delle due “madri” della Psicoanalisi ha un esito incerto.
La Klein rischia la “scomunica” ma vince ai punti, mantenendo il suo posto nella Società di Psicoanalisi e il diritto di lavorare dall’interno per ottenere sempre più consenso alle sue idee.
Sono anni fondamentali. La Psichiatria si accorge della Psicoanalisi e, in un paese come gli USA, la formazione dei futuri cattedratici è in prevalenza psicodinamica. La vocazione culturale, la “laicità” della Psicoanalisi ne fanno un mondo scientifico a parte che parla agli altri paradigmi culturali senza tenere conto di una virgola di quanto le altre scienze vanno elaborando.
Questa disparità avrà serie ripercussioni sugli sviluppi futuri, dando lo spunto, a chi si accorge del paradosso, per creare ambiti altrettanto polarizzati e monolitici, che si porranno in contrapposizione con la cultura e il movimento che deriva dalla Psicoanalisi.
Il cognitivismo, che si appoggia alla psicologia sperimentale e le neuroscienze, le quali si affermano con la scoperta dei farmaci psicotropi e dei nuovi strumenti di indagine dell’SNC, sono due movimenti contrapposti alla Psicoanalisi a partire dagli anni ‘60, che l’establishment psicoanalitico stesso tenderà ad ignorare e disconoscere, come l’ancien regime, finché ciò, come ai giorni nostri, non apparirà grottesco.
Nell’ambiente psicoanalitico degli anni ‘60 del Novecento si respira un’aria di “dopo di me il diluvio”. Poche personalità si distinguono per lucidità e apertura mentale, ma vengono in parte fagocitate, in parte osteggiate dall’establishment. Fairbairn, Winnicott, Bowlby, Bion, Foulkes, Meltzer, la Scuola di Rapaport sono esempi di genialità e innovazione. Alcuni, come Bowlby, verranno apprezzati prima nella cultura del cognitivismo che in psicoanalisi. La maggior parte si collocherà nella sfera degli outsider, autorizzati, come avvenne per la Klein, a fare l’opposizione di sua maestà il maestro.

Queste considerazioni fanno affiorare una contraddizione ancora non del tutto risolta nell’ambiente psicoanalitico. Quello che doveva essere un movimento di sensibilizzazione allo studio di una realtà mentale ignorata fino a quel momento, è diventata talvolta una struttura gerarchizzata. L’aver dimenticato che la Metapsicologia era un’impalcatura in attesa dei dati della psicologia scientifica, ha spinto i prosecutori di Freud a farne talvolta un monolite inattaccabile o, al contrario, continuamente attaccato da chi propone altre metapsicologie, costruite sull’esempio di Freud, il quale almeno ai suoi tempi, almeno poteva dire di essere il primo ad occuparsi di certi argomenti.

 

Il metodo della PPI

Nonostante la crudezza espressa intorno ad alcune incongruenze della Psicoanalisi, siamo convinti che quest’ultima sia un metodo degno di rispetto; soprattutto perché coltivato da numerose persone rispettabili.
Resta, però, la riserva intorno al ricorso indiscriminato a vecchi armamentari teorici che andrebbero dichiarati scaduti come i farmaci o gli alimenti, ricordati come l’elléboro, i purganti, i salassi e i manicomi in Psichiatria, per la cultura storica di chi vuole formarsi.
Il metodo da noi proposto, la PPI, parte proprio da questa necessità di rinnovamento della Psicoanalisi, il riferimento alla quale è del tutto presente nell’aggettivo psicodinamica.
Tale riferimento non è certamente alla dinamica pulsionale, che non consideriamo quale teoria della motivazione. La dinamica che ci interessa è quella della relazione tra esseri umani, la quale precede sicuramente la dialettica o interazione verbale .
Qui riprendiamo quanto detto all’inizio nel commentare la connotazione della Psicoanalisi quale “terapia della parola”.
La PPI in questo senso, non nasce come talking cure. La PPI, in quanto Psicoterapia vuole afferrare il testimone di una cultura millenaria che risale a Ippocrate ma, più recentemente, si lega al fare terapeutico dei primi medici della mente.
Fare, per la PPI, è innanzitutto la relazione con l’altro da sé; una relazione che, in quanto prescinde inizialmente dalla parola, è empatica, ossia (come meglio vedremo nel cap. VII) si svolge nell’incontro intersoggettivo degli individui che partecipano alla relazione stessa. Il fare nella PPI, quindi, è in primis presenza dinamica; cioè attitudine al movimento integrato mente-corpo.
Il corpo è, ovviamente, soprattutto chiamato al sentire emotivo che offre al terapeuta gli spunti per la dinamica intuitiva iniziale, e spesso non verbale, che è dinamica interattiva umana.
L’azione non cessa al momento del parlare, perché anche parlare è interagire, ossia non esclude il sentire e la presenza corporea nel collegamento continuo tra affetti e pensiero.
Nell’interazione psicodinamica non è compreso solo il sentire emotivo ma anche un approccio globale con la personalità dell’altro; personalità vista e sentita come complessa, ossia non solo come meccanismo o struttura funzionante, ma come insieme di elementi strutturali biologici e contenuti mentali specifici e originali di quell’individuo.
Già in questa visione d’insieme della personalità dell’altro da sé, sentita e percepita da un lato, compresa e approfondita dall’altro lato, si coglie l’essenza del primo approccio della PPI, che racchiude in sé, in sintesi, tutto il processo psicoterapeutico.
La Fase Empatica e la Fase Interpretativa della PPI vanno considerate in modo integrato nel corso dell’intervento, anche se con un certo reciproco stacco iniziale più o meno lungo, dovuto alla gravità del quadro clinico della personalità del paziente (cfr. cap. VII).

Per riassumere, quindi, la PPI è Psicoterapia e non analisi, perché l’intervento scaturisce dall’intenzione di curare quello che in termini generali si può definire disturbo di personalità.
Psicoterapia per mantenere il fare medico che vuole indurre una risoluzione del disturbo, la quale non è certo creazione di un uomo nuovo, più o meno uniformato ai canoni arbitrari del terapeuta ma, in un certo senso, è restitutio ad integrum, se con essa intendiamo non tanto riportare il soggetto al prima della crisi (lo stato quo ante della medicina organica) ma il restituire al soggetto le sue potenzialità evolutive che la crisi ha interrotto e messo fuori uso.
Non pensiamo, infatti, sia compito dello psicoterapeuta prescrivere un modello di vita sociale e tanto meno un modello di forme da applicare praticamente.
Se ciò accadesse, saremmo ritornati nell’ambito ipnotico e suggestivo della manipolazione settaria e carismatica, dove il soggetto è invitato a ispirarsi a un modello astratto, imposto dal narcisismo onnipotente di un presunto terapeuta.
Psicoterapia Psicodinamica, quindi, per i motivi su esposti ma anche per marcare una distinzione.
Al momento attuale, si è perso tempo utile e occasioni propizie per dare alla Psicoterapia un termine univoco. La già citata difficoltà della Psicoanalisi ad accettare il fare dinamico nella sua prospettiva, ha contribuito alla svalutazione del termine Psicoterapia, spesso attribuito a semplici interventi di riabilitazione psicosociale, del tutto privi di metodologia che, a nostro avviso, come abbiamo visto, deve invece puntare alla restitutio ad integrum della personalità del soggetto.
Pensiamo che l’occasione perduta della Psicoanalisi di essere la matrice della Psicoterapia sia recuperabile nel momento in cui all’aggettivo psicodinamica aggiungiamo l’aggettivo integrata.
Una vera matrice riesce a integrare, infatti, perché accoglie sul suo common ground tutti gli apporti che da paradigmi affini e diversi provengono per arricchire la complessità della visione e offrire strumenti di intervento.
Integrazione, quindi, vuol dire riunire in una visione binoculare la Fase Empatica e la Fase Interpretativa dell’intervento ma anche l’intervento contemporaneo sul biologico e il mentale; ma anche l’utilizzo congiunto di conoscenze sperimentali e intuitive.
L’integrazione si esprime in modo evidente nell’eventuale uso di farmaci psicotropi che non inficia, secondo noi, la psicodinamica della relazione terapeutica.
Molto si è detto e si continua a dire (vedi appendice, Lago, Petrini, Zerella, Balbi, 2006), e a lungo verrà ripetuto in questo libro, sull’importanza di una integrazione tra intervento farmacologico e psicodinamico.
Abbiamo già ricordato come la scoperta dei farmaci psicotropi abbia creato un vulnus nella prospettiva terapeutica della Psicoanalisi, spingendo l’establishment ad innalzare improvvidi muri divisori tra clinica psichiatrica e cura analitica, e nondimeno tra Psicoterapia e Psicoanalisi.
Il difetto principale da noi rilevato, che ha reso ostica l’applicazione degli psicofarmaci nel contesto della Psicoanalisi, è da ricondurre alla coincidenza della matrice teorica e culturale con la Metapsicologia e non col background scientifico generale, l’apertura nei confronti del quale avrebbe consentito di accogliere lo strumento farmacologico come una risorsa da integrare nella complessità del metodo psicoterapeutico.

La PPI propone, quindi, l’integrazione che la cultura della Psicoanalisi ha trascurato, sapendo di essere una voce tra tante ma con la speranza di distinguersi per chiarezza e coerenza.
L’integrazione sostenuta dalla PPI non ha padri o numi tutelari cui ispirarsi, però si appella senza discriminazioni a tutti gli apporti provenienti dal campo della scienza in generale, della psicologia scientifica, sperimentale, dello sviluppo, della psichiatria e delle neuroscienze.
In questo senso, la PPI mette a disposizione la sua metodologia per le figure professionali più implicate nel trattamento dei disturbi mentali, ossia per lo psichiatra e lo psicologo clinico; invitando comunque tutti gli altri operatori della salute mentale ad arricchire con la loro esperienza il già abbondante background di partenza presente in questo libro.
Teniamo a sottolineare, che integrare non vuol dire certo confondere ruoli e prerogative, bensì fornire un quadro di riferimento comune sul piano teorico e metodologico, che allontani la Babele degli indirizzi in Psichiatria e Psicoterapia, e permetta di conseguire risultati soddisfacenti con una visione d’insieme condivisa; tale cioè da non sdoppiare i campi di osservazione e di intervento, anzi da fonderli naturalmente, come Bion ci ricorda accadere, in una felice sintesi, nella visione binoculare.