La neuropsicanalisi: un nuovo paradigma per lo studio della mente umana

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Neuropsychoanalysis: a new paradigm studying the human mind

Castrucci L. 1

1. Medico specialista in psicologia clinica responsabile struttura estensiva per deficit cognitivi e disturbi comportamentali Villa Albani Anzio Asl RM H (lucillacastrucci@gmail.com)

Riassunto

È attualmente in corso un acceso dibattito che ha per oggetto la neuropsicanalisi, la cui nascita si può far risalire al 2001, quando Mark Solms con Jaak Panksepp e ad altri neuroscienziati e psicoanalisti, fondano la The Neuropsychoanalysis Association e la rivista Neuropsychoanalysis.

La comprensione dell’eziologia della patologia psichica potrebbe divenire maggiormente chiara e completa attraverso il dialogo tra psicoanalisti e neuroscienziati.  La neuropsicanalisi rappresenta un approccio interdisciplinare e contemporaneamente può essere indicata come il superamento della dicotomia storica che ha determinato, per lungo tempo, una contrapposizione tra scibile umanistico e sapere scientifico. L’interrelazione esistente tra il sapere umanistico e quello scientifico può essere il nuovo paradigma con cui interpretare la mente umana.

Questo articolo si propone, attraverso una revisione dei contributi presenti in letteratura, di illustrare quanto la neuropsicanalisi possa aiutare, in ambito clinico, a sostanziare e dettagliare i meccanismi che sostengono la possibilità individuale di sperimentare determinati affetti ed emozioni.

Parole chiave: psicoanalisi, neuroscienze, mente, emozioni.

Abstract

There is currently an ongoing heated debate regarding neuropsychoanalysis, the birth of which can be traced back to 2001, when Mark Solms with Jaak Panksepp and other neuroscientists and psychoanalysts founded The Neuropsychoanalysis Association and the journal Neuropsychoanalysis.  The understanding of the etiology of mental pathology could become clearer and more complete through dialogue between psychoanalysts and neuroscientists. Neuropsychoanalysis represents an interdisciplinary approach and at the same time can be indicated as the overcoming of the historical dichotomy which has determined, for a long time, a contrast between humanistic knowledge and scientific knowledge. The interrelationship between humanistic and scientific knowledge can be the new paradigm with which to interpret the human mind. This article aims, through a review of the contributions present in the literature, to illustrate how neuropsychoanalysis can help, in the clinical field, to substantiate and detail the mechanisms that support the individual possibility of experiencing certain affects and emotions.

Keywords: psychoanalysis, neuroscience, mind, emotions.

Introduzione

La comprensione del rapporto tra mente e cervello e la cognizione della patologia psichica avviene attraverso il riferimento a modelli teorici che generalmente si contrappongono. Un esempio è dato, da un lato, dalle teorie della mente, proprie della psicoanalisi, e dall’altro dalle nuove conoscenze sul funzionamento cerebrale acquisite grazie allo sviluppo delle neuroscienze. Questa rigida divisione tra i due approcci può essere considerata un limite alla comprensione più profonda dei meccanismi che legano cervello e mente ed alla comprensione dei processi alla base dei fenomeni patologici. Attraverso l’analisi dei contributi presenti in letteratura ci si propone di illustrare quali siano i punti di contatto tra le neuroscienze e la teoria analitica, che è alla base della psicoterapia dinamica. Così da stabilire quanto la neuropsicanalisi possa aiutare, in ambito clinico, a sostanziare e dettagliare i meccanismi che sostengono la possibilità individuale di sperimentare determinati affetti ed emozioni.

Metodo

La ricerca degli articoli scientifici e dei testi che hanno come argomento la definizione neuroscientifica del funzionamento cerebrale, la teoria psicoanalitica, i suoi sviluppi e le sue applicazioni è avvenuta utilizzando la banca dati pubmed ed il datebase medline. Si è focalizzata l’attenzione sui lavori che illustrano la nascita della neuropsicanalisi, il possibile parallelismo tra strutture cerebrali ed istanze psichiche, il concetto di plasticità cerebrale, i meccanismi delle emozioni e della memoria, i processi mentali consci ed inconsci ed il concetto di empatia. I lavori selezionati sono in numero superiori a quelli citati nel testo ed in bibliografia, si è scelto di riportare le fonti bibliografiche ritenute maggiormente significative ed esplicative rispetto agli argomenti trattati e di evitare duplicazioni.

La nascita della neuropsicanalisi

Nel 2000 il primo Congresso, svoltosi a Londra, che ha tentato di dare una definizione neuroscentifica alle emozioni ed agli affetti, ha gettato le basi per la nascita di un nuovo movimento: la neuropsicanalisi. Nel 2001, con l’obiettivo di trovare un paradigma interdisciplinare, Mark Solms con Jaak Panksepp e ad altri neuroscienziati e psicoanalisti, fondano la The Neuropsychoanalysis Association e la rivista Neuropsychoanalysis.

Nel 2013 Solms pubblica su Neuropsychoanalysis l’articolo dal titolo “The conscious id” in questo lavoro illustra i meccanismi del tronco encefalico e sostiene che la parte superiore del tronco encefalico e le strutture limbiche ad esso associate, hanno le stesse funzioni che Freud riteneva essere le funzioni dell’ES, mentre la corteccia cerebrale e le strutture ad essa associate svolgono le funzioni che il padre della psicanalisi pensava essere dell’Io.

Nei primi anni della sua professione Freud rimane legato alla propria esperienza di neurologo e nel 1895 in “Progetto di una psicologia”, scritto inedito fino agli anni ’50, scrive: “Un giorno sarà possibile rappresentare il funzionamento psichico negli elementi organici del Sistema Nervoso”. Con il passare del tempo, Il pensiero Freudiano si avvicina, all’ipotesi formulata da J. H. Jackson secondo la quale tutto ciò che è tra il sistema cerebrale e la coscienza è sconosciuto, l’eventuale localizzazione dei processi della coscienza non aiuterebbe a comprenderli meglio.  (Freud S. 1938.). Gli psicoanalisti, successori di Freud, da Karl Abraham e Carl Gustav Jung alla figlia Anna, a Melanie Klain fino a Winnicott e Lacan hanno esteso il campo di applicazione della tecnica psicoanalitica, precedentemente riservata ai disturbi nevrotici, al trattamento della schizofrenia, delle psicosi e ai disturbi antisociali anche per l’età infantile. In epoca più recente sono state elaborate, in ambito psicoanalitico, nuove teorie e nuove tecniche che vengono applicate anche nel trattamento di pazienti neurologici (Kaplan-Solms K., Solms M. 2000).  La principale differenza tra patologia neurologica e psichiatrica consiste nel fatto che la prima è generalmente correlabile a danni presenti in specifiche aree cerebrali, mentre la seconda può riconoscere, tra i fattori eziologici, un’alterazione di una particolare rete o circuito neuronale.

Il cervello di Mclean e la seconda topica di Freud

Negli anni precedenti la nascita della neuropsicoanalisi Paul McLean, neurologo americano, propose un modello di cervello tripartito. McLean ebbe come punto di partenze le ricerche, di James Papez che descrisse, da un punto di vista neuroanatomico, le strutture cerebrali coinvolte nei processi emotivi (Papez J.W., Thomas Y. Crowell 1929). Il neurologo americano aggiunse al “circuito di Papez” l’aspetto evolutivo, proponendo un modello secondo il quale il cervello è formato da tre differenti parti anatomiche che presentano uno stadio evolutivo differente. Secondo questo modello la parte più antica o cervello rettiliano, ha il compito di gestire le funzioni vitali dell’organismo quali frequenza cardiaca e respiratoria, temperatura corporea ed equilibrio. Il sistema limbico è in grado di elaborare emozioni e sentimenti e la neocorteccia permette di essere coscienti di esistere, di formulare pensieri astratti e di portare a termine progetti complessi (MacLean 1984).  Secondo alcuni neurobiologi la teoria di McLean è criticabile poiché il cervello non si è evoluto secondo i tre stadi rettile, limbico, neocorteccia ma ha nel tempo ha presentato uno sviluppo di alcune sue strutture (Wnuk A. 2015).  Nonostante le critiche, il modello del cervello tripartito ha riscosso un certo successo nella comunità scientifica ed ha sollevato l’idea che potesse esistere un parallelismo tra il cervello di McLean e l’apparato psichico concepito da Freud, esposto nel 1920 nella seconda topica, e costituito dalle tre istanze: Es, Io e Super-Io (Nardino E. 2021). Il parallelismo non è privo di criticità, infatti mentre l’Es può identificarsi con il cervello rettiliano, Io e Super-Io potrebbero invece entrambe rifarsi alla nozione di cervello neocorticale (D’Aliesio M. 2017).

Dal locazionismo al concetto di plasticità cerebrale

La strada dello studio neuroanatomico cerebrale basata sul locazionismo applicato alla psicoanalisi comincia ad essere abbandonata quando il progresso tecnologico permette, attraverso studi di neuroimaging, di indagare gli aspetti peculiari dei circuiti e delle reti neuronali.  Eric Kandal, neuroscienziato, insignito del premio Nobel nel 2000, per gli studi che hanno contribuito a definire il concetto di neuroplasticità, pubblica nel 1999 su American Journal of Psychiatry: “Biology and the future of psychoanalysis: a new intellectual framework for Psychiatry” proponendo ed auspicando una convergenza tra psicoanalisi e neuroscienze così da sviluppare un nuovo approccio allo studio della mente.

Il concetto di plasticità cerebrale rappresenta nell’ambito delle neuroscienze e dello studio della mente una rivoluzione copernicana. L’assunto che sia impossibile per il cervello modificarsi, nel corso della vita, poiché una volta terminato il processo di neurosviluppo il numero di neuroni rimane stabile e le cellule danneggiate non possono in alcun modo essere sostituite, viene scardinato. Grazie ad una serie di meccanismi che riguardano: lo smascheramento di sinapsi latenti, la gemmazione dendritica, la rigenerazione assonale, la neurogenesi e la modificazione dell’eccitabilità neuronale, il cervello si può modificare anche nella vita adulta (Wagner H., Siber K. 2006). Le strutture cerebrali, come tutte le strutture dell’organismo umano, sono geneticamente determinate. Storicamente il genoma è stato considerato come fisso ed immutabile, trasmesso da una generazione alla successiva senza alcun cambiamento, fatta eccezione per gli errori di trascrizione che possono anche generare patologie (Nelson D.L., Cox M.M. 2002). Lo sviluppo dell’epigenetica ha dimostrato che in realtà i geni posseggono dei meccanismi aggiuntivi, questi permettono che un determinato gene si esprima o no in funzione degli stimoli ambientali e culturali (Bottaccioli AG., Bottaccioli F.2023). Le esperienze che possono modificare l’espressione genica sono molteplici: fisiche, psicologiche, di apprendimento, di stress (Doidge N.2007). Le cellule cerebrali comunicano tra loro grazie ad impulsi chimico-elettrici in parte predeterminati geneticamente, ma gli imput ambientali sono decisivi per la selezione delle risposte che le cellule possono dare, tra tutte quelle geneticamente previste (Bottaccioli AG., Bottaccioli F.2023).  Questo meccanismo epigenetico è alla base della creazione e modificazione dei circuiti e delle mappe neurologiche. (Frauenfeld E., Santoianni F. 2002). La plasticità cerebrale è quindi la predisposizione del sistema nervoso a modificarsi in funzione dell’esperienza (Siegel, 2012). Woollett, K. e Maguire nel 2011 hanno pubblicato i risultati di uno studio sperimentale che dimostra come l’esperienza sia in grado di modificare il numero di collegamenti tra neuroni in specifiche aree cerebrali.

Plasticità cerebrale, memoria ed emozioni

Nel momento in cui si vive e si memorizza un’esperienza, questa lascia una traccia a livello cerebrale.  Numerosi comportamenti umani, normali e patologici, sono legati alla capacità di memorizzazione delle esperienze e delle informazioni (Colucci D’Amato L., Di Porzio U. 2011). Nei processi di memorizzazione un ruolo fondamentale è rivestito dalle emozioni.  L’esistenza di un legame tra esperienze emotive, processi di memorizzazione e comportamenti umani patologici è, in qualche modo, stato anticipato da Freud, quando nel 1909 in una delle cinque conferenze sulla psicoanalisi tenute per il ventesimo anniversario di fondazione della Clark University di Worcester, Massachusetts sostiene: “i nostri malati isterici soffrono di reminiscenze. I loro sintomi sono residui e simboli mnestici di determinate esperienze”.

Le neuroscienze hanno, negli ultimi anni, chiarito il legame esistente tra stato emotivo e memoria. Sono stati identificati i circuiti neuronali coinvolti nei meccanismi della memoria e si è arrivati a dimostrare l’esistenza di “filtri”, localizzati nelle strutture sottocorticali, in particolare ippocampo ed amigdala, in grado di effettuare una selezione di tipo emotivo dell’esperienza che deve essere memorizzata (Mcgaugh J.L., McIntyre C.K., Power E.A. 2002; Traetta T. 2009). Agli inizi degli anni ’90 LeDoux ed altri autori documentano come le esperienze traumatiche avvenute nell’infanzia possano indurre, a livello cerebrale, modificazioni strutturali e metaboliche che condizionano le esperienze future (LeDoux et al., 1989; LeDoux et al., 1990). I lavori di Jaak Panksepp (2006, 2014) rivelano che le esperienze emozionali avute in tenera età possono influire sullo sviluppo cerebrale e sulla formazione della personalità. Huether (2013) sottolinea come l’esperienza emozionale sia in grado di rimodellare i circuiti cerebrali e gli schemi di pensiero e comportamento ad essi collegati.  

Damasio (2003), seguendo una prospettiva evoluzionista, ipotizza che le emozioni precorrano i sentimenti. L’autore aggiunge che è possibile pensare che le risposte agli imput, che generano la comparsa di emozioni e sentimenti, siano determinate da mappe presenti nel soma che hanno un corrispettivo nelle configurazioni neuronali cerebrali. Infine, sostiene che le emozioni primarie possono essere legate a circuiti cerebrali innati. Secondo Davidson (2013) ogni individuo ha un particolare profilo emozionale e reagisce agli stimoli in modo differente. Le emozioni determinano il colore dell’esperienza percettiva e danno una spinta evolutiva all’esistenza di ogni singolo uomo. (Fabbri M. 2013 – 2014).

Le acquisizioni delle neuroscienze si possono considerare in sintonia con i principi e la pratica della psicologia dinamica, come dimostrato anche dalla pubblicazione di lavori sperimentali effettuati sulle esperienze ed i vissuti traumatici infantili.  Nel 2013 viene pubblicato, su Psichiatria e psicoterapia, un articolo della psicoanalista Alessandra Stringi. Si tratta del report di un lavoro, effettuato in ambito penitenziario, che si pone l’obiettivo di proporre un modello esplicativo dell’eziologia delle tossicodipendenze, dimostrando che le origini delle addictions sono imputabili a vissuti traumatici infantili. Inoltre, la Stringi, grazie alla conduzione di un gruppo analitico, giunge alla conclusione che: “il contatto intersoggettivo dei processi relazionali e l’esperienza di mentalizzazione possano contribuire ad attivare processi trasformativi di cura “.

Come affermato da Carlo Umiltà (2012) in un suo articolo dal titolo Maffei ha ragione: “…la psicoterapia, ed in particolare la psicoanalisi, rientrano nei processi di stimolo e di arricchimento cerebrale…”, questo concetto indica come “le terapie della parola” sono in grado di modificare il funzionamento cerebrale. Questo può essere considerato uno dei punti d’incontro tra psicoanalisi e concetto neuroscientifico di plasticità cerebrale.

Conscio ed inconscio tra psicoanalisi e neuroscienze

Negli ultimi anni gli studi neuroscientifici hanno in parte spostato il loro focus dall’indagine dei processi mentali consci, allo studio empirico dei processi mentali inconsci, cercando di identificare i circuiti cerebrali che si attivano quando accade qualcosa di cui il soggetto non è consapevole.

Ricerche neuroscientifiche, che utilizzano i metodi di brain imaging, hanno accertato che la capacità di controllo cosciente è limitata (Dehaene, Stanislas 2014). Inoltre, hanno stabilito l’esistenza di processi di memorizzazione emozionale non consapevole, tra questi processi vi sono quelli legati al condizionamento emotivo ed ai vari aspetti della memoria implicita o procedurale. Le strutture cerebrali che sottendono la memoria implicita sono l’amigdala ed altre regioni limbiche, i nuclei della base, la corteccia motoria e la corteccia percettiva (Lucci V.2019).  Secondo Siegel (1999) fin quando non si sviluppa l’ippocampo il cervello è in grado di utilizzare soltanto la memoria implicita, i ricordi si formano grazie allo sviluppo di nuove connessioni cerebrali in risposta alle esperienze. La generalizzazione delle esperienze porta alla formazione di schemi, compresi quelli delle reazioni automatiche.  Le strutture cerebrali coinvolte nei meccanismi di memoria implicita sono già sviluppate alla nascita ed è l’unica memoria di cui l’essere umano è fornito fino ai due anni di età. È la memoria procedurale che, grazie anche alla sua dimensione emotivo-affettiva, permette al bambino di conservare traccia delle prime esperienze. Inoltre, la memoria procedurale rende possibile memorizzare abilità, abitudini e movimenti assimilati nel tempo, cui non è possibile accedere consapevolmente. Secondo Pirrongelli (2019) la memoria implicita ha una importante rilevanza in ambito psicoanalitico poiché rappresenta il collegamento tra memoria emotiva ed inconscia. 

Durante l’elaborazione del “l’Interpretazioni dei sogni”, l’attenzione del padre della psicoanalisi si focalizza sulla dimenticanza delle esperienze e dei fatti della vita dei primi anni dell’infanzia. Freud attribuisce un ruolo fondamentale, proprio a queste dimenticanze, rimosse perché in grado di lasciare un segno incancellabile nella mente del soggetto (Freud, 1899). L’opinione di Mauro Mangia è che il pensiero Freudiano sembra intuire l’esistenza della memoria implicita (Mancia M. 2000). Attualmente, in ambito psicoanalitico l’intuizione freudiana ha trovato uno sviluppo, è lo stesso Mancia, che è in Italia uno dei maggiori sostenitori dell’idea che esiste la possibilità di un’integrazione tra psicoanalisi e neuroscienze, ad introdurre il concetto di “inconscio non rimosso”. Secondo Mauro Mancia, la memoria implicita può essere messa in relazione con l’inconscio non rimosso. Questo concetto è sostenuto da alcuni aspetti neuroscientifici. Perché avvenga il processo di rimozione occorre che ippocampo, corteccia orbito-frontale e temporale, strutture necessarie per i meccanismi della memoria esplicita, siano integri e raggiungano uno stadio di maturità. La rimozione che è collegata alla memoria esplicita che non è presente nel bambino piccolo. Prima dei due anni di età, tutto ciò che è memorizzato, viene fissato nella memoria implicita e si colloca nell’inconscio non rimosso (Mancia 2008).

Empatia in psicoanalisi e nelle neuroscienze

Negli scritti di Freud si trova il termine einfühlung che può essere tradotto con immedesimazione, questo concetto è verosimilmente assimilabile a quello di empatia (Pinotti A. 2011). Freud nel 1912 scrive: “il medico deve rivolgere il proprio inconscio come un organo ricevente verso l’inconscio del malato che trasmette”. Etimologicamente il termine empatia deriva dal greco em – pathos cioè sentire dentro, l’empatia è la “capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro” (Enciclopedia online Treccani). Jaspers (1912) differenzia la capacità di comprendere razionalmente, dalla comprensione empatica che si realizza quando, al di là delle regole della logica, vengono compresi gli stati d’animo ed i desideri dell’altro. L’empatia non esprime valutazioni né prevede un giudizio morale, comporta la possibilità di percepire il mondo emotivo dell’altro senza fondersi con questo, riuscendo a mantenere e distinguere le proprie emozioni ed il proprio punto di vista (Fornaro M. 2000). L’empatia non ha un potere terapeutico, però fa sì che l’analista possa comprendere il problema dell’analizzato e capire qual è il proprio vissuto rispetto a ciò che ha compreso (Pirrongelli C. 2019).  Secondo Bolognini (2002) l’empatia non può essere definita come un fenomeno inconscio ma nemmeno pienamente conscio. Questo autore ritiene che, in ambito psicanalitico, l’empatia permetta l’elaborazione del controtransfert, proteggendo così l’analista da narcisismo ed onnipotenza. Alberto Lorenzini (2004) ipotizza che empatia e controtransfert presentino una complementarità. Secondo questo psichiatra, che fa riferimento alla psicologia del sé, nella relazione terapeutica il controtransfert si presenta quando il rapporto empatico tra terapeuta e paziente si interrompe, ed è l’elaborazione del controtransfert che permette di arrivare alla “intuizione empatica”in grado di riavviare il processo terapeutico.

Una importante scoperta delle neuroscienze è stata quella dell’esistenza di neuroni specchio, ritenuti il correlato neurobiologico dell’empatia, ad opera del gruppo di Giacomo Rizzolati dell’Università di Parma. Questo team di ricercatori si stava occupando dello studio della corteccia premotoria quando, come un aneddoto racconta, notò che, mentre uno sperimentatore prendeva una banana, nella scimmia che era monitorata ed aveva assistito alla scena alcuni neuroni si attivarono (Simonetti M. 2009). Lo studio e l’approfondimento di questo fenomeno portò Rizzolati ed il suo gruppo ad individuare un insieme di neuroni, che denominarono specchio, che si attivava nel cervello delle scimmie, non solo quando compivano una determinata azione, ma anche quando vedevano compierla. Lo stesso gruppo, nel 1995, dimostrò l’esistenza dei neuroni specchio anche nell’uomo (Rizzolati et. al. 1996). Grazie alle tecniche di brain imaginig si è potuto stabilire che nell’uomo i neuroni specchio sono localizzati al livello del lobo frontale compresa l’area di Broca, nel lobo parietale e nell’insula, dove avviene la rielaborazione delle informazioni provenienti dal sistema limbico, che a sua volta è coinvolto nelle funzioni relative alle emozioni. Si ritiene che i neuroni specchio siano alla base dell’empatia e che quelli localizzati nella giunzione tempro-parietale si attivano quando occorre valutare una risposta emotiva. La giunzione temporo-parietale è un’area cerebrale indispensabile nel riconoscere ciò che appartiene a sé e quello che appartiene all’altra persona (Rizzolati 2006).

Gli studi neuroscientifici sull’empatia, in caso di dolore, hanno portato allo sviluppo di un nuovo modello che si differenzia da quello che prevede, per i neuroni specchio, un’attivazione stimolo correlata. Nel caso del dolore l’empatia può essere spiegata seguendo due modelli: il primo riguarda la mappatura somatotopica del dolore, il secondo la risonanza affettiva che è influenzata da meccanismi top-down legati alla valutazione cognitiva. Questo porta ad ipotizzare che attraverso un percorso razionale e culturale sia possibile inibire l’attivazione dei neuroni specchio (Fan Y, Han S. 2008).

Gli studi neuroscientifici sull’empatia e sulle emozioni rappresentano un cambiamento di ottica per le neuroscienze.  A differenza di quanto accade per lo studio degli aspetti cognitivi, quando vengono indagati gli aspetti affettivi e motivazionali della mente umana, il focus dell’indagine è rappresentato dall’esperienza soggettiva (Panksepp, J. 1998). Le neuroscienze affettive aprono così il confronto con la psicoanalisi che fonda la sua teoria e prassi sulla soggettività dell’esperienza che è possibile condividere grazie alla parola ma anche all’empatia.

Conclusioni

Il confronto tra neuroscienze e psicanalisi può generare un nuovo paradigma per l’interpretazione dei legami esistenti tra mente e cervello. Le attuali ricerche indicano che l’approccio psicoanalitico e quello neuroscientifico non sono necessariamente in contrasto. Sono propri della psicoanalisi e della psicologia del profondo alcuni contenuti che fino a pochi anni fa, non essendo misurabili, sfuggivano all’osservazione richiesta dal metodo scientifico, inoltre la psicoanalisi  fonda parte della sua ricchezza sulla dimensione soggettiva. L’evoluzione delle neuroscienze sembra rendere sempre maggiormente possibile il superamento della dicotomia mente-cervello (Mundo E. 2010)

La neuropsicanalisi non può essere semplicemente considerata come un modello che ha lo scopo di confermare le ipotesi freudiane attraverso le nuove acquisizioni neuroscientifiche. Dalle origini ad oggi la psicoanalisi è progredita e si è arricchita e differente è la formazione dei terapeuti. Le neuroscienze offrono oggi un aiuto alla possibilità di revisionare e rifondare le teorie psicoanalitiche. Come affermato da Gentili, Crestea e Petrini (2013) è buona cosa che il dialogo tra neuroscienze e psicoanalisi prosegua, ma questo deve avvenire senza che si tenti di legittimare ogni affermazione di Freud e senza rinunciare al rigore della metodologia scientifica.

Attualmente le ricerche neurobiologiche hanno evidenziato i meccanismi biopsicologici di alcuni processi non coscienti e dei meccanismi legati all’empatia. Hanno validato l’efficacia della psicoterapia, Glen Gabbard (2000) in un articolo pubblicato sul British Journal of Psychiatry sottolinea come, le esperienze relazionali vissute nell’ambito di una psicoterapia, siano in grado di modificare alcuni circuiti cerebrali. Si può ipotizzare, partendo dal presupposto che le anormalità tra le interazioni delle reti neuronali possano essere alla base di disturbi psicopatologici, che studi futuri possano giungere a identificare dei marcatori utili sia scopo diagnostico che terapeutico. Bisogna tener presente, per procedere in questa direzione, che agli strumenti d’indagine tipici delle neuroscienze è necessario aggiungere paradigmi sperimentali appropriati allo studio della soggettività che permettano una interpretazione dei dati adeguata alla complessità della mente umana.

Occorre superare delle difficoltà, che ad oggi permangono, quali la metodologia ed il linguaggio profondamente differenti in ambito neuroscientifico e psicoanalitico. È necessario eliminare la frammentarietà delle conoscenze per giungere ad un sapere unitario (Oliviero A. 2009).

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