Di passioni e altre storie: la libroterapia in adolescenza

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di Francesca Carubbi1
  1. psicologa, psicoterapeuta, autrice. Centro Studi e Clinica Psicologica Daimon Fano (PU)

dr.francesca.carubbi@gmail.com

Riassunto

Con il termine libroterapia intendiamo l’utilizzo della narrazione  letteraria (White, 1992) in ambito clinico e di promozione del benessere. In tal senso, le neuroscienze (Uboldi, 2013) hanno dimostrato quanto la narrazione sia connaturata al nostro funzionamento cerebrale: la lettura, sia essa ascoltata che attivamente promossa, promuove un’identificazione con i personaggi grazie al processo della simulazione incarnata (Gallese, 2005).

Da qui, il seguente articolo si prefigge di descrivere l’importanza della narrazione (con piccoli focus sullo stato della lettura in italia e sulla nascita del romanzo moderno) come dispositivo di cambiamento, soprattutto per gli adolescenti, i quali non solo attraversano una fase delicata di pruning cognitivo, e quindi necessitano di strumenti che possano arricchire sia il loro apprendimento cognitivo, bensì possono trovare, nel libro, una feconda risorsa di alfabetizzazione emotiva, di passione verso la vita e, quindi, di comportamenti proattivi che possano scongiurare una chiusura narcisistica, contraddistinta da vuoto interiore e mancanza di empatia, come cercherò di mostrare attraverso cenni di un mio caso.

Parole chiave: libroterapia; narrazione; psicologia; adolescenza

Abstract

With the term book therapy we mean the use of literary narration (White, 1992) in the clinical field and for the promotion of well-being. In this sense, neuroscience (Uboldi, 2013) has demonstrated how narration is inherent to our brain functioning: reading, whether listened to or actively promoted, promotes identification with the characters thanks to the process of embodied simulation (Gallese, 2005).

From here, the following article aims to describe the importance of narration as a device for change, especially for adolescents, who not only go through a delicate phase of cognitive pruning, and therefore need tools that can enrich both their cognitive learning , but rather they can find, in the book, a fruitful resource for emotional literacy and, therefore, proactive behavior.

Keywords: book therapy; storytelling; psychology; adolescence

Un’epoca di passioni vuote e di vocabolario scarno: l’adolescente, oggi

Molti vissuti degli adolescenti sono contraddistinti da lande desolate, da vuoti incolmabili, dove il “buco” – per parafrasare un albo molto famoso (Llenas, 2016) – non è più quella salvifica frattura interiore (Rogers, 1961) che permette l’inizio di un’interrogazione responsabile personale. Se un tempo il dolore psichico parlava di un conflitto sorto da un pressante senso di colpa, dal bisogno, per crescere, di ribellarsi al sistema (Borgioni, 2017), da qualche anno assistiamo a un altro tipo di sofferenza dove il Super Io non è più l’istanza morale, il limite da trasgredire, ma è un’istanza che ci vuole perfetti, socialmente adeguati (o social?), impeccabili nel nostro manifestarsi al mondo, pena una profonda ferita narcisistica e una vergogna annichilente.

Pietropolli Charmet (2008) li definisce spavaldi e terribilmente fragili. Perché? Perché i primi a essere fragili siamo noi a causa di uno stile educativo scisso (Carubbi; Albano, 2008), e “traditore” (Lancini, 2021), tra le sue componenti verbali e non e, quindi, non autentico,  per il fatto che il fisiologico ritorno della pulsionalità conflittuale ci spaventa.

Per un nuovo patto educativo: la famiglia come luogo di cura e modello di assunzione di scelte libere e responsabili

Da qui, personalmente, mi trovo molto vicina alla posizione di Bowlby quando sostiene che per prendersi cura del bambino e dell’adolescente non possiamo dimenticare il sostegno al genitore. Freud (2003, post.), in tal senso, sosteneva che i mestieri più difficili sono sicuramente lo psicologo, il genitore e l’insegnante. Lacan (1966; 2006), da suo canto, sottolinea quanto l’educazione sia un mestiere impossibile. Perché? Perché, nonostante le nostre buone intenzioni, un terreno di crescita ben annaffiato, i nostri pargoli non risponderanno sempre alle nostre aspettative – e, per fortuna, sostengo io -; non sempre coglieranno i nostri sforzi. L’Altro, per definizione, è irriducibile a qualsiasi oggettivazione. Ci sarà sempre uno scarto, un buco tra noi e loro.

La questione, allora, è come vivificare questo spazio e questa distanza. Come muoversi, allora?

Per un’educazione congruente: il genitore tra affettività e norma

Nel mio primo libro[1], dedicai buona parte alla spinosa questione educativa, definendo il genitore come un osservatore partecipante alla crescita del figlio. Un osservatore che sa quando e come intervenire, senza angosciarsi davanti agli inevitabili ostacoli che il ragazzo troverà inevitabilmente sulla strada. Come a dire: “Io, genitore, posso permettere a mio figlio di imparare a camminare sapendo che, probabilmente si sbuccerà le ginocchia?” e, ancora, “posso tollerare la sua frustrazione, il suo sconforto, i suoi inevitabili fallimenti?”, senza dimenticare un’altra domanda fondamentale: “Posso mostrarmi, allo stesso tempo, fragile ma saldo, profondamente ferito ma anche una base sicura?”.

Che cosa significa, allora, educare la famiglia?

Educare è un processo dinamico contraddistinto da tappe evolutive e familiari che non sono sempre lineari ma che rispondono del proprio equilibrio soggettivo.

Per questo motivo, ogni presa in carico del minore non può prescindere dalla cura del sistema famiglia e delle sue relazioni (Tardioli, 2022).

Quando il genitore è troppo concentrato su di sé ossia sul saper fare, tralasciando il saper essere, il giovane si trova smarrito, per il fatto che non può contare sull’autenticità del primo.

E allora arriva la rabbia, distruttiva. La rabbia di un Peter Pan che, a differenza del personaggio di Barrie, vuole crescere. Checché se ne dica, l’adolescente vuole un adulto che risponda al suo richiamo. Vuole appassionarsi, tendersi verso l’autorealizzazione, vuole la parola come testimonianza. Vuole una frattura che lo interroga nel profondo. Vuole un adulto autorevole che lo sostenga in questo difficile percorso di crescita.

Uno sguardo sul leggere in Italia: la lettura è ancora importante?

In questo panorama, anche la lettura ha perso il suo senso. E, con lei, le sue componenti morfologiche e sintattiche.

Non dimentichiamo che la lettura non è solo uno strumento di facilitazione cognitiva, bensì relazionale: leggere insieme, dibattere, argomentare permette un prezioso incontro transgenerazionale (Carubbi, 2009; 2018).

Ma come e quanto si legge? E, da qui, come ciò influisce sullo sviluppo sociolinguistico?  ricerche linguistiche ci informano, infatti, di una costante perdita lessicale; di una difficoltà sempre maggiore nella comprensione, anche di un testo semplice. Per non parlare dell’uso dei tempi verbali: stiamo perdendo l’uso del tema del perfetto, del congiuntivo.

Si legge poco e male.

I dati ISTAT

Da una recente ricerca ISTAT (www.istat.it Noi Italia 2023), si evince come sia calato il numero di lettori in Italia: “Nel 2022, rispetto all’anno precedente, diminuisce la quota di lettori di libri, pari al 39,3% della popolazione di 6 anni e più (40,8% nel 2021). Tra questi, il 44,4% legge fino a 3 libri l’anno, mentre i “lettori forti” (12 o più libri letti in un anno) sono il 16,3%.” Ma, fortunatamente “La lettura di libri è soprattutto prerogativa dei giovani nella fascia d’età tra gli 11 e 24 anni e delle donne”.

I ragazzi si stanno di nuovo innamorando della lettura? Ancora è presto per dirlo ma occorre sottolineare che, a oggi, molti Istituti Scolastici d enti di prossimità stanno mettendo in campo molte iniziative lodevoli di promozione della narrazione, intesa anche come autobiografia: laboratori di scrittura creativa, club del libro, biblioteche di classe… Senza dimenticare la preziosissima iniziativa nazionale “Io Leggo perché”.

“Homo narrator”: lo storytelling connaturato all’essere umano

Per l’antropologia e la psicoanalisi, l’uomo nasce con il linguaggio: la parola è la condizione sine qua non che ci differenzia dagli altri animali. Questo per il fatto che il dire ci umanizza e particolarizza. La parola rende la persona soggetto, grazie alla cura amorevole.

Siamo fatti di parole. Come sostiene il biologo americano Stephen Jay Gould (1995, p. 24), noi esseri umani “siamo creature che raccontano storie; la nostra specie avrebbero dovuta chiamarla Homo narrator”.

Uomini narranti che hanno iniziato a divulgare con l’oralità (Sanga, 2020) per poi offrire testimonianze letterarie, dove “i significati testuali escono dalla loro potenzialità, divengono significati in atto, solo durante la,  e grazie alla, lettura […]”[2]

Ė il lettore, allora, ad offrire possibilità di significati a significanti già offerti; significati unici e irripetibili.

La “nascita” della narratività

Le basi narrative risalgono alla Poetica di Aristotele, per cui la narrazione può avere carattere di mimesi o interpretazione – nel caso dell’epopea – o di diegesi alias in forma, appunto, narrativa. In questo ultimo caso, gli studiosi della narrazione utilizzano il termine fabula[3]: a interessarsi, per primi, alla narratività furono i formalisti russi, come ad esempio V. Propp (1926; 1948), il quale indicò nella fiaba – quale prodotto intermedio, come ci ricorda Italo Calvino (2021), tra la novella e il romanzo – il “prototipo” di ogni discorso narrativo, grazie alla scoperta della linearità e ripetibilità delle sequenze narrative e del loro declinarsi in azioni e funzioni ben definite e univoche al di là delle differenze culturali.

La fiaba, allora, grazie a una fabula ben chiara e definita, si ripete nel tempo e tende a rispecchiare il discorso dei parlanti e i significati che racchiude.

L’apporto delle neuroscienze nello studio dello storytelling

L’idea della narrazione come modello universale di precise sequenze d’azione/ funzione (Propp, 1926) è stata studiata scientificamente da Sara Uboldi (Uboldi, 2013), la quale ha scoperto una stretta “convergenza tra l’architettura testuale del fiabesco e le strutture cognitive”: nello specifico, durante la narrazione, vengono attivati specifici neuroni, definiti mirror, la cui specificità è, appunto, quella di fungere da “specchio” nell’azione (Rizzolati, 2004; Gallese, 2006);  gli studi sulla fiaba, ad esempio, (Uboldi, 2013) mostrano come il lettore grazie ai neuroni specchio può identificarsi con le azioni dei personaggi proprio per il fatto che le suddette funzioni (Propp, 1928) sono speculari ai suoi script e frames cognitivi. Ciò potrebbe spiegare il carattere universale della fiaba, fungendo, da qui, come “microsceneggiatura” (Uboldi, 2013) delle azioni umane e, quindi, come proficua fonte di apprendimento cognitivo ed emozionale.

Se caratteristica fondamentale della fiaba è la sua linearità delle sequenze narrative e l’unità d’azione, da Aristotele, diverso è il discorso sul romanzo, il cui intreccio, è, al contrario, più complesso.

Focus: la nascita del romanzo

Il termine “romanzo” nasce nel Medioevo per designare le narrazioni che spaziavano dai temi ispirati all’epopea classica a quelle dell’amor cortese, i temi di avventura e cavallereschi (Meneghetti, 2010).

Con l’età moderna (1600 – 1700), nasce la nostra idea di romanzo, grazie  alla pubblicazione di grandi opere, come Don Chisciotte di Cervantes (1605) in Spagna e Moll Flanders di Defoe in Inghilterra (1722).

Progressivamente, il romanzo si complessifica nei suoi intrecci: la narrazione amplifica dolori ed emozioni, bisogni di riscatto, come nelle sorelle Brontë, in Dumas e in Victor Hugo.

In Italia, Verga mostra come la lotta alla sopravvivenza non abbia eguali. Timidamente, si inizia a narrare anche di crescita e delle prime scoperte sessuali (romanzi di formazione), con Federico Tozzi (1919), in Italia, e Lowrence (1928), in Inghilterra.

Un discorso che meriterebbe un articolo a sé riguarda i romanzi fantasy (ad es. la saga di Twilight e di Harry Potter, solo per citarne i più famosi) e tutto il mondo Young Adult o i romanzi spicy a forte impatto psicologico.

“ Il cavaliere inesistente”.  Antonio e il suo senso di vuoto interiore

Come accennato più sopra, molti clienti mostrano una percezione di sé priva di continuità e di confini; fragile e, soprattutto, con scarsa capacità di mentalizzazione e riflessione sui propri stati interni e quelli altrui. Come sostiene Elena Faini (Faini, 2023), i clienti di oggi hanno grande difficoltà a porre e sostenere un contatto psicologico con il terapeuta (Rogers, 1957), considerandolo, da qui, una prosecuzione del proprio bisogno narcisistico, per cui il clinico altri non è che colui che deve risolvere il problema, per il fatto che il cliente non riesce a prendere contatto con la sua sofferenza interna o cerca di proiettare le cause all’esterno.

Per quanto riguarda l’adolescenza, molti ragazzi non sanno proprio chi siano: non mostrano un’impalcatura conflittuale e, da qui, non potendo assumersi responsabilmente il proprio conflitto delegano il loro cambiamento al clinico. Il dialogo, da qui, diventa monologo sintomatico che gira su se stesso, senza via di uscita.

“Il cavaliere è una parte di me”: lettura e empatia

Ecco, allora che il libro può permettere un nuovo discorso su di sé, una sua  prima costruzione: grazie alla “simulazione incarnata” (Gallese, 2006), le sequenze narrative risuonano empaticamente in noi.

In tal senso, mi sovviene il caso di un adolescente che seguo da pochi mesi e che si presenta con una sensazione di vuoto interiore: per Antonio è tutto “normale”; non c’è sfumatura emotiva se non una fredda rabbia che lo coglie nei momenti di profonda frustrazione.

Nell’esempio concreto, il “Cavaliere inesistente” (Calvino, 1959) rappresenta quella parte vuota di sé e la sua sofferenza fa da eco a quella di Antonio. Lì, il monologo si spezza a favore dello stupore, della meraviglia e del risveglio: le parti vuote del Cavaliere sono anche le sue; tra di loro passa un invisibile filo rosso che li unisce. Il Cavaliere fa da specchio; il ragazzo può interrogarsi su chi sia, cosa ama e su chi vuol diventare. Inizia un barlume di assunzione di responsabilità.

“I tre moschettieri”. Antonio e la libroterapia come alleata nella costruzione di sé

Rogers (1957) sosteneva che la persona è un agente di scelta libero e responsabile e che, da qui, per cambiare deve rispondere necessariamente a ciò che il suo organismo sofferente gli comunica,  affinché possa, in primis, appropriarsi del proprio conflitto interno (non è sempre colpa degli altri se sto male), per poi assumersi il desiderio di porre un vitale mutamento alla propria esistenza.

In tal senso, affinché possiamo provare un conflitto, occorre che, prima, abbiamo strutturato un’immagine di noi coerente ma rigida e inflessibile,  fatta di valori, emozioni e costrutti che abbiamo ereditato e abbiamo fatto nostri, e che tende a soffocare la nostra congruenza che ancora non riusciamo a simbolizzare correttamente (Rogers, 1951).

Essere responsabili, allora, vuol dire rendersi consapevoli di questo bivio esistenziale, tra chi devo e chi vorrei, invece, essere: Antonio mi dice che sta leggendo di nuovo e che ha una nuova carica nello sport; pian piano inizia a emergere un germoglio di sé, in quanto inizia a sapere cosa vuole, su chi vuol essere. Si sta costruendo emotivamente. Ora è un moschettiere

E, ora,  è un D’Artagnan (Dumas, 1844) che ama l’amicizia e la cooperazione.

Conclusioni

Con questo articolo, ho voluto porre una riflessione su una possibile integrazione tra saperi diversi – letteratura e psicologia – nel facilitare un’interrogazione personale.

Implicarsi, interrogarsi è, da sempre, una necessità per l’essere umano e ciò lo possiamo osservare nelle opere letterarie. Come abbiamo visto, la fiaba è stato il primo prodotto, insieme al teatro, a facilitare nella persona la sua tensione alla ricerca di significati e senso dell’esistenza.

Il conflitto psichico si nutre di queste interrogazioni esistenziali: “Chi sono?”; “Cosa voglio?”…  Oggi, la sofferenza sta nel fatto che si vogliono eludere suddette questioni, con risposte certe e subitanee, e il tempo per la riflessione non esiste quasi più. Gli adolescenti stessi tendono a ricercare un’esistenza priva di conflitto. ma senza conflitto il nostro sé tende a scomparire. Ecco a cosa serve la libroterapia: a riscoprire il valore del dialogo, soprattutto quello interno; a rispecchiarsi in qualcun altro che, prima di noi, ha vissuto le nostre azioni. Per riattivare, allora, la nostra narrazione esistenziale.

[1] F. Carubbi (2018). Paco, le nuvole borbottone e altri racconti. L’uso della fiaba nell’infanzia per un’educazione centrata sul bambino. Alpes Italia, Roma

[2] Segre C. (1985). Avviamento all’analisi del testo letterario

[3] “I termini favola e fiaba, infatti, derivano […] da una medesima voce verbale latina, fari, che significa parlare” (Boroni, 2020, p. 91)

 

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