Prospetto sul metodo della PPI

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Tratto da La Psicoterapia Psicodinamica Integrata: le basi e il metodo

PROSPETTO SUL METODO DELLA PPI

di Giuseppe Lago

Rimandando ai prossimi capitoli uno sguardo più approfondito sulle basi neuroscientifiche e psicodinamiche, nonché sulla teoria dello sviluppo, che costituiscono le fondamenta del nostro metodo, ci accingiamo a esporre con chiarezza un prospetto per necessità sintetico, sperando di arricchirlo nel corso dell’esposizione successiva.
Partiamo subito dal motivo per cui usiamo il termine metodo, dicendo che non vogliamo con questo sottrarci alla responsabilità di formulare una teoria ma evitare di proporne una nuova che dovrebbe soppiantare le altre, come spesso è avvenuto nel campo delle scienze biologiche.
Pensiamo che, nel campo della Psicoterapia, le teorie siano punti di vista più o meno intelligenti, più o meno condivisibili, più o meno integrabili tra di loro.
Ciò che conta, a nostro avviso, è il metodo in grado di condurre gli assunti di base teorici all’applicazione e a mantenere i risultati nel tempo; e, cosa assai importante, a prescindere dalla persona che esegua l’intervento terapeutico.

 

Il fattore carismatico

Qui, emerge un nodo essenziale, che avremo modo di riproporre, sulla validità del metodo a prescindere dal fattore personale, considerato quest’ultimo una variabile indipendente, e come tale capace di incidere sui risultati di un intervento, allo stesso modo del fattore placebo in farmacologia.
Il fattore personale, ineliminabile e certamente non negativo nell’andamento di una Psicoterapia, può essere meglio definito come fattore carismatico.
Il fattore carismatico (vedi appendice) è costituito non solo dalla componente suggestiva e manipolativa esercitata dal terapeuta ma anche da qualità personali e reali, come acume, intelligenza, genialità, sensibilità, fascino, che fanno parte della persona, appunto, e non del metodo.
Ebbene, ciò che noi proponiamo come metodo è uno strumento che può sì valorizzare le doti personali ma è lontano da indurre un appiattimento o l’uniformazione delle personalità dei terapeuti. A nostro avviso, non la personalità, ma la competenza e l’esperienza va uniformata, perché serva da background in grado di potenziare la personalità di colui che possiede le prerogative per esercitare la professione di psicoterapeuta.
Per stabilire il minimo comun denominatore, sufficiente per l’esercizio della Psicoterapia, abbiamo ideato, come vedremo meglio più avanti, il concetto di sanità di base; ossia una condizione di partenza, nella quale la personalità abbia raggiunto un primo consolidamento in cui l’evoluzione sia ancora possibile, e in cui però la crisi possa essere data solo dall’incontro con un evento aggressivo in grado di destrutturare l’equilibrio raggiunto per un tempo relativamente breve, necessario, peraltro, al soggetto perché si riorganizzi secondo un nuovo equilibrio evolutivo.
Riservandoci di tornare sull’argomento nel cap. VI, andiamo a esporre il prospetto metodologico annunciato.

 

La metodologia medica

Non dobbiamo inventarci una nuova metodologia; ne possediamo una già consolidata che è quella medica. Alla metodologia medica, è noto, fanno riferimento anche gli psicologi clinici, i quali, tra l’altro, nel servizio sanitario nazionale italiano sono collocati nell’area della dirigenza sanitaria. La metodologia medica prevede una sistematizzazione delle conoscenze e dei passaggi procedurali indispensabili, senza i quali un atto non può essere giustificato da un’impostazione scientifica e finisce per rientrare nell’empirismo di buona memoria, ancora presente un secolo fa in gran parte della medicina.
Vediamo, allora, di richiamare i cardini metodologici di cui ci serviremo per proporre l’intervento che definiamo Psicoterapia Psicodinamica Integrata (PPI).
Per prima cosa, dovremo esporre quella che potremmo considerare come la fisiologia della mente, senza trascurare la componente evolutiva costante, che riguarda la psicologia dello sviluppo ma anche la psicodinamica dell’adulto.
Potendo contare su una fisiologia della mente, potremo ricavare osservazioni interessanti dalla psicopatologia, in modo da ricondurle sempre all’eventuale sviluppo interrotto, e così ricavare una fisiopatologia della mente, o come qualcuno sostiene una psicopatologia evolutiva (Fonagy, 2003).
Il passo successivo non può che essere l’impostazione di una diagnosi, la quale sarà, in questo caso, una diagnosi psicodinamica integrata, a sostegno dell’originalità del metodo e dei concetti clinici in base ai quali sarà organizzato l’intervento.
Ciò che noi chiamiamo PPI, quindi, si snoda lungo questi passaggi metodologici e può contare su basi biologiche e psicodinamiche che ne garantiscono il collegamento con conoscenze acquisite e sviluppi acquisibili nella ricerca attuale.
L’esigenza di sintesi che richiede il nostro prospetto metodologico ci farà necessariamente ricorrere a delle schematizzazioni, le quali vogliono essere un contributo alla chiarezza piuttosto che un invito all’astrazione. Con grande modestia, ma altrettanta riconoscenza, facciamo riferimento all’originale strumento di Bion (1963) griglia, per sottolineare che la schematizzazione che proponiamo è provvisoria e funzionale alla comprensione dei fatti reali.
Invitiamo, pertanto, i lettori a tollerare una terminologia di nuovo conio, che serve solo a riorganizzare conoscenze acquisite, passate e recenti, in funzione del metodo che andiamo proponendo.
Se qualcuno, poi, dovesse avanzarci l’eventuale obiezione di stare esponendo l’ennesima metapsicologia, contraddicendo quanto affermato nel cap. I, senza troppe difficoltà, potremmo rispondere che il nostro è un involucro plasmabile e modificabile secondo le esigenze di impostazione. I nostri termini sono “parole valigia”, importanti in quanto contengono fatti reali, prove scientifiche, riferimenti a campi oggetto di verifica; non sono, come i termini della Metapsicologia “parole in sé”.
Se dico libido, se dico pulsione, infatti, vengo immediatamente captato in un rimando di significati e di credenze che mi impedirà qualsiasi confronto con altri, se non con coloro che partono dagli stessi assunti di base.
Altra cosa, come vedremo, parlare di livelli mentali e denominare componenti della personalità, studiate da molteplici punti di vista, con i termini che si credono più consoni ai fini esplicativi. Nulla da temere, quindi, per i lettori.
Le nostre “parole valigia” sono e resteranno convenzionali; come i meridiani e i paralleli che circondano la terra solo nei mappamondi.
Cominciamo, allora, a spiegare che cosa intendiamo per livello mentale, prima che si perda la bella metafora dei meridiani e paralleli.
Livello è un termine che ha in sé il significato di misura e di incremento o decremento dimensionale. Associato all’aggettivo mentale (e non psichico, cfr. cap. VI), rivela la possibilità di circoscrivere un ambito della personalità, sia in termini statici che evolutivi. Sulla personalità, benché non sia un termine di nuovo conio, dobbiamo fare la stessa premessa di cui sopra, cioè rifiutare significati precostituiti e, magari ritornando al significato etimologico, considerarlo come l’involucro ma anche la sintesi rappresentativa (maschera) di processi biologici e mentali altamente complessi, i quali non possono fare a meno di esprimersi dinamicamente e dialetticamente nelle relazioni intersoggettive.

 

I livelli mentali

Come vedremo (cap. VI), la personalità ha un suo sviluppo, con delle tappe necessarie di maturazione. Per il momento, è sufficiente ipotizzare uno standard medio di un soggetto adulto, che non presenti patologie dello sviluppo né processi psicopatologici in corso. Un soggetto del genere, a nostro avviso, possiede un’organizzazione della personalità che è possibile inquadrare, cogliendola in un momento dato nei suoi aspetti fondamentali. Questa istantanea, ovviamente, così come il fotogramma o una serie di fotogrammi di un film, fa parte di un processo dinamico che si può solo intuire o prospettare. Il prospetto, appunto, della personalità ha un valore solo in termini esplicativi ed espositivi; come dire che per conoscere un film occorra scorrere gran parte della pellicola e non solo il trailer.

L’organizzazione della personalità verrà, quindi, da noi esposta a scopo esplicativo, articolandola secondo tre livelli mentali.
I tre livelli mentali sono i seguenti:

  • Protomentale
  • Pensiero Inconscio
  • Pensiero Verbale

 

Studiando lo sviluppo della personalità (come meglio faremo nel cap. VI), sappiamo che c’è un ordine di apparizione di ciascun livello mentale, a partire dalla nascita. Se, invece, come ci siamo proposti, intendiamo presentare un’istantanea della personalità di un soggetto adulto esente da psicopatologia e difetti di sviluppo, vedremo l’articolazione dei tre livelli, presenti in quota diversa ma in modo integrato.
Il termine dimensionale, o quota, può senz’altro valere per il livello protomentale, nel quale è evidente la rilevanza di fattori biologici quantificabili e misurabili.
I due livelli mentali di secondo ordine, come Pensiero Inconscio e Pensiero Verbale, non sono quantificabili né misurabili, in quanto costituiti da quelli che le Neuroscienze definiscono qualia, ovvero qualità, contenuti mentali, quindi prodotti, risultato di un lavoro della mente individuale, di cui è possibile valutare le manifestazioni ma è difficile risalire ai processi.
La difficoltà di risalire ai processi del pensiero e spiegarli è stato il rompicapo, e tuttora impegna molta filosofia.
Kant, con il concetto di cosa in sé, aveva invitato i ricercatori a rassegnarsi all’osservazione dei fenomeni, inquadrandoli secondo i ben noti parametri spazio-temporali. Kant, l’illuminista, sperava così di allontanare i pensatori dall’inveterata abitudine di individuare un principio assoluto quasi sempre coincidente con la divinità.
Purtroppo, il concetto di inconscio, perfezionato nella mente lungimirante di Freud, finiva per racchiudere proprio quella cosa in sé che Kant aveva consigliato di porre fuori dal campo della ricerca.
Ma se i filosofi non possono negare di essere stati messi in guardia da Kant, psichiatri e psicologi (meno preparati in filosofia) rischiano di cadere nel solito trabocchetto e commettere l’errore di Cartesio. Quest’ultimo, che ovviamente non poteva conoscere Kant, non solo separa nell’uomo la mente dal corpo ma classifica le scienze in due ambiti ben separati: le scienze della natura e le scienze dello spirito.
Cartesio ha un suo modo di risolvere il problema di come la mente naturale, corporea, emotiva dell’uomo (res extensa) si connette con la mente concettuale, cognitiva, simbolica (res cogitans); egli ricorre al mito dell’homunculus, ovvero una piccola riproduzione dell’uomo stesso che, dalla ghiandola pineale del cervello esercita la vista interiore che travalica la conoscenza oggettiva.
Oggi, per fortuna, non sono pochi i filosofi e i neuroscienziati, a partire da Antonio Damasio (1994), che evitano di cadere nell’errore di Cartesio.
In Psicoterapia, invece, specialmente dopo l’apporto psicoanalitico, l’inconscio e il pensiero sembrano ancora cose in sé, che solo il rappresentante concettuale dell’homunculus, ovvero l’anima più o meno spirituale riesce a cogliere.
Qui, in Psicoterapia, non sussiste però, a nostro avviso, unicamente l’errore di Cartesio. Come abbiamo già abbondantemente anticipato, qui la colpa, se così si può dire, è della Metapsicologia, che ha creato dei contenitori, non fittizi, non convenzionali, ma strutturali, tali come Es, Io, Super-io, mondo interno, mondo esterno, ai quali viene attribuito un significato assoluto per cui risultano essere cose e non involucri a perdere come dovrebbero.
Qualcuno dirà, quindi, che la tal cosa si trova nell’inconscio, nella coscienza, nel Super-io, nell’oggetto interno, dando a intendere che non di processi dinamici, ossia fluttuanti e momentanei, si tratta ma di cose in sé, strutture consolidate e scontate della personalità umana.
Il nostro parere è diverso. Quando parleremo di livelli mentali di secondo ordine, ossia sostanzialmente di pensiero, non lasceremo la base neurofisiologica di partenza, se non per dare un nome a qualcosa che accade nella complessità del cervello e si esprime istantaneamente, ovvero non precede l’azione necessariamente, come il progetto dell’architetto precede la casa, ma si organizza lì per lì, a partire da elementi precedenti che costituiscono le premesse dell’atto del fare o del parlare e, soprattutto, che nessun homunculus riunisce o assembla secondo un processo prestabilito.
Se, quindi, porremo in chiaro che il Protomentale sia un livello mentale in cui più facile è il collegamento tra le manifestazioni e la struttura neurofisiologica sottostante, quando parliamo di Pensiero Inconscio lo stesso collegamento non è più facile di quanto lo sia, per la maggioranza dei neuroscienziati, the binding problem, ovvero come si giustifica dal punto di vista neurofisiologico il processo del pensiero.
I neuroscienziati non l’hanno ancora risolto, anche se vi sono varie ipotesi; l’importante però è che l’abbiano posto. Ed è interessante che essi siano portati prima a occuparsi del reciproco dell’inconscio, ovvero della coscienza (Edelman e Tononi, 2000), in quanto chiarire che cosa è la coscienza rivela indirettamente il suo lato oscuro, anzi per la precisione, il lato oscuro della mente.

 

Protomentale e mentalizzazione

Ritorniamo, allora, ai nostri tre livelli mentali e cominciamo a parlare del primo.
Il Protomentale, infatti, compare per primo. Esso è un livello mentale di primo ordine; diretto conduttore e assimilatore degli stimoli che provengono dall’esterno della personalità del soggetto.
Chiariamo subito, di avere buoni motivi per affermare che, nel neonato, il Protomentale è l’unico livello mentale e che occorre più di un anno perché si cominci a manifestare un livello mentale di secondo ordine. Fino a quel momento, che generalmente coincide con la maturazione completa del cervello, e in particolare dell’area dell’ippocampo, la mente umana funziona con un livello mentale di primo ordine; ossia, non produce e non gestisce alcun processo simbolico.
Una prima definizione che possiamo dare del Protomentale è, dunque, la seguente:

“Il Protomentale è la condizione oggettiva e soggettiva del neonato nel periodo che va dalla nascita alla comparsa del pensiero simbolico.”

Con questa definizione, però, siamo lontani dalla personalità standard di cui ci eravamo proposti di fare un prospetto. Sorvoliamo, allora, sullo sviluppo, per ritornarvi nel cap. VI, e diciamo solo che nella nostra idea evolutiva della mente teniamo conto, sia della complessità della mente biologica, intesa come substrato organico evolutivo, sia della mente relazionale, ossia della modalità evolutiva interpersonale della struttura biologica.
Perché sia chiaro l’ambito evolutivo che vuole circoscrivere il termine Protomentale, diremo che esso ha a che fare col primo livello mentale del periodo della vita nel quale, sia la teoria delle relazioni oggettuali, sia la teoria dell’attaccamento, sia l’infant research, sia la neurobiologia, convergono nell’attribuire un ruolo fondamentale alla relazione neonato-caregiver (Lago et al. 2003b).
Se ci riferiamo, quindi, al soggetto adulto immaginario, del quale volevamo studiare la personalità, dobbiamo riconoscere che in esso il Protomentale si sia alquanto ridimensionato rispetto all’epoca neonatale e infantile, fino a ridursi ad una quota, non rigidamente standardizzata, ma genericamente ridotta, che noi indichiamo come quota di base.

Riepilogando, il Protomentale si costituisce a partire da sequenze d’azione ripetute e impresse nella memoria implicita del soggetto, “codificate in forma non simbolica, le quali influenzano i processi organizzativi che guidano il comportamento” (Beebe, Lachmann, 2002). Il Protomentale, quale unico momento di partenza nello sviluppo mentale, costituisce così la base comune, biologica e mentale dell’essere umano, valutabile sia in termini strutturali (nel SNC), sia in termini preverbali e presimbolici in quello che potremmo definire inconscio non simbolico e che, per comodità, definiremo inconscio protomentale, per distinguerlo dall’inconscio simbolico, legato ai livelli mentali di secondo ordine.
L’inconscio protomentale non è un concetto metapsicologico ma una realtà fisiologica che ha un substrato organico integrato nell’intero SNC e delle funzioni (emozioni, affetti) che si trasformano in altre funzioni più elaborate (sentimenti, immagini), dette di secondo ordine.
Il Protomentale si compone di una parte inconscia, come abbiamo visto, non rappresentabile simbolicamente ma che, in quanto legata alle emozioni primarie, può essere richiamata dalla memoria implicita per opera di uno stimolo simile a quello che ha suscitato l’emozione primaria stessa.
Nel momento dell’emozione, il Protomentale emerge quindi alla coscienza; cioè crea quel senso di sé nucleare che Damasio (1999) spiega egregiamente come incontro del Proto-sé con l’oggetto esterno.
Anche sul lavoro di Damasio ci sarà modo di tornare (cap. III); per il momento, basti sapere che il passaggio dal senso di sé nucleare al sé autobiografico, che si caratterizza per la configurazione di tracce mnesiche costanti e richiamabili alla coscienza per opera del Pensiero (Inconscio o Verbale), prevede una operazione mentale dipendente dalla complessità del cervello umano sviluppato (dai 18 mesi di vita in poi), che noi chiamiamo mentalizzazione.
La comparsa della mentalizzazione o funzione riflessiva (Fonagy et al. 2001, 2002) costituisce una lunga fase, che progressivamente si afferma nella personalità del soggetto, fino a costituire il funzionamento normale della mente adulta.

Che cosa ne sarà del Protomentale a sviluppo adulto completato?
Con la comparsa dei due livelli mentali più evoluti, il Protomentale si riduce progressivamente, fino a rimanere fissato in una quota di base, la quale collocandosi nel confine mente-corpo, costituisce un aspetto costante della personalità, garanzia di stabilità e sviluppo, testimonianza della storia emozionale affettiva inconscia del soggetto.
Perché il Protomentale permanga nella quota di base, compatibile con l’equilibrio di una personalità adulta normale, occorre che gli elementi emotivi e affettivi, frutto della relazione dinamica immediata con l’ambiente, siano continuamente organizzati e, grazie al pensiero simbolico, trasformati in immagini mentali, ossia in contenuti psichici dotati di stabilità e in grado di consentire al soggetto la giusta distanza dagli oggetti materiali e dalle proprie esperienze emotive, consentendo così una relazione corretta con la realtà.
La funzione riflessiva o mentalizzazione, ovvero l’operazione che porta alla formazione di immagini mentali, dapprima viene esercitata con l’aiuto del caregiver, il quale rimanda al neonato la sua immagine rassicurante. Il bambino, crescendo, acquisirà la funzione riflessiva, sul modello della mentalizzazione materna. Ciò significa che le immagini mentali del bambino, dopo il secondo anno di vita, nasceranno nel contesto della relazione di attaccamento, instaurata alla nascita. Il risultato sarà che la prima rappresentazione simbolica di sé sarà una immagine mentale di sé e dell’altro da sé, ossia il prodotto sintetico e inscindibile di una relazione affettiva.
Quanto sopra dimostra che le prime forme simboliche sono inconsce, in quanto rappresentazioni, ovvero immagini mentali di sé e dell’altro da sé, che si imprimono nella memoria esplicita del soggetto, la quale comincia a configurarsi intorno al secondo anno di vita e permette come si diceva, la costituzione del sé autobiografico.
Il nostro soggetto adulto, allora, possiede un livello protomentale, in quota di base, e un Pensiero Inconscio, ossia un livello mentale di secondo ordine, in grado di operare la mentalizzazione delle esperienze emotivo-affettive del momento, connettendole alle immagini di sé e dell’altro da sé, cioè al sé autobiografico, e trasformandole a loro volta in immagini mentali.
Perché si realizzi in modo adeguato il processo di mentalizzazione, occorre che le immagini mentali, frutto della elaborazione mentale delle relazioni significative, si possano configurare in altro modo, seguendo una tendenza sintetica creativa che dà luogo alla formazione di fantasie, ossia di immagini relativamente indipendenti dall’effettiva esperienza di interazione con l’ambiente.

 

Pensiero Inconscio e Pensiero Verbale

Il livello mentale di secondo ordine, da noi definito Pensiero Inconscio è costituito, quindi, dalla funzione riflessiva, attraverso la quale opera la sintesi di elementi emotivi e affettivi, appartenenti al livello protomentale, in immagini mentali; e dalla funzione creativa, attraverso la quale produce nuove immagini originali dette fantasie, componendo liberamente immagini mentali di sé e dell’altro da sé, impresse nella memoria esplicita.
Parlando di Pensiero Inconscio è d’obbligo specificare che con questo termine non vogliamo certo proporre la reificazione di un concetto astratto o l’attribuzione di funzioni cognitive a un’attività mentale che si svolge fuori dei processi coscienti. Come avremo modo di approfondire più avanti (vedi cap. IV), il Pensiero Inconscio costituisce una forma organizzata dell’attività mentale non cosciente, laddove il Protomentale ne costituisce la forma meno organizzata, direttamente condizionata dagli stimoli ambientali, rispetto ai quali è in grado di reagire attraverso manifestazioni aspecifiche, il cui risultato può essere valutato in termini dimensionali.
L’elemento primario del Pensiero Inconscio è l’immagine mentale, ossia una forma di organizzazione funzionale del SNC che ha una zona cerebrale d’elezione (l’ippocampo), ma non si può restringere in una localizzazione unica del cervello, in quanto le qualità da cui è costituita (qualia) derivano dalla funzionalità intera e integrata del SNC. Inoltre, l’originalità dimostrata dai processi mentali di comporre secondo una logica narrativa (ovviamente non aristotelica) le immagini già elaborate, ci permette, anche se con una “forzatura terminologica” di parlare di pensiero onirico o Pensiero Inconscio in genere, distinguendo quest’ultimo da un Pensiero Verbale più studiato e accreditato dalla psicologia cognitiva. La nostra “forzatura terminologica”, che potrebbe infastidire qualcuno, però, ha lo stesso tenore di quella che i critici d’arte, musicali, letterari, esercitano quando attribuiscono al prodotto dell’artista un pensiero implicito e una filosofia espressiva in grado di inquadrare una precisa visione del mondo.
Nel Pensiero Inconscio Onirico, appunto, immagini mentali e fantasie spesso si mischiano e si sovrappongono.
I sogni sono un esempio concreto della capacità produttiva del Pensiero Inconscio.
Nei sogni, sono presenti:

  • elementi protomentali, che stabiliscono il gradiente emotivo onirico e contengono il cosiddetto residuo diurno;
  • immagini mentali, che offrono il materiale autobiografico onirico;
  • fantasie, immagini originali, composte creativamente dalla mente del soggetto, secondo un piano narrativo ed una espressione estetica, che riconducono al pensiero onirico del soggetto.

 

Sarà il Pensiero Verbale di colui che interpreterà il sogno a permettere al pensiero onirico di uscire dall’oscurità e diventare evidente.
Il nostro soggetto adulto, che abbiamo definito normale, probabilmente sognerà ma non è detto che renderà evidente il suo pensiero onirico. Lo farà, forse, nella cultura attuale, se avrà l’opportunità di praticare una PPI. Altrimenti, completerà il suo livello mentale di secondo ordine con l’acquisizione del Pensiero Verbale, ovvero di una attività di pensiero simbolica che richiede l’apprendimento del linguaggio verbale in termini fonetici e grammaticali. Attraverso lo strumento verbale, il soggetto ha la capacità di esprimere implicitamente (immagine corporea) gli altri livelli mentali.

 

Protomentale e Pensiero Inconscio.

Il Pensiero Verbale come atto finale dello sviluppo della personalità richiede, quindi, un’integrazione dei tre livelli mentali, senza la quale il linguaggio verbale finisce per andare incontro a modalità fatue, ovvero essere il risultato di uno sdoppiamento, di una polarizzazione, di una frammentazione della personalità, come meglio vedremo nel cap. VII.
Per ora, ci basti sapere che ciò che intendiamo come Pensiero Verbale è un livello mentale di secondo ordine, nel quale il linguaggio non può essere limitato alla mera funzione di ” utensile comunicativo”.
Come suggerisce Vygotskij (1934), nel linguaggio verbale non è tanto importante il significato universale quanto il senso personale, che fornisce espressione alla creatività umana, manifestandosi nella costruzione e dimostrazione di idee innovative e nelle forme artistiche in genere.
D’accordo con Merleau-Ponty (1960), il quale definisce il concetto di parola incarnata, riteniamo che il Pensiero Verbale può dirsi maturo quando non sia tanto espressione del solo pensiero ma di tutto l’essere umano che interagisce con l’ambiente. In tal senso, il concetto di immagine corporea, con la sua caratteristica di esprimere allo stesso tempo il corpo e la mente, ci permette di dire che la personalità del soggetto, che abbiamo scelto come esempio, si completa nei tre livelli mentali e si gestisce nell’ambiente attraverso la parola e l’immagine corporea (vedi appendice).

Nella visione tripartita della personalità che prospettiamo, quale sarà il posto degli elementi psicodinamici che vogliamo mediare dall’esperienza della Psicoanalisi?
Il discorso è complesso, e verrà approfondito nel cap. IV; però, vogliamo sottolineare la visione integrata della personalità, piuttosto che quella conflittuale, da sempre avanzata da una certa tendenza della Psicoanalisi.
Tanto per scendere in dettaglio, la teoria pulsionale, freudiana e post-freudiana decreta un conflitto perenne, sia all’interno della personalità, sia tra la personalità e l’ambiente.
La risoluzione di un conflitto di tal fatta viene proposta dalla Psicoanalisi in due modi principali che riassumiamo in modo sintetico:

  • rassegnarsi a controllare con la coscienza illuminata dalle conoscenze psicoanalitiche i livelli pulsionali sottostanti la coscienza stessa, scegliendo opportune sublimazioni e identificazioni che aiutino l’adattamento sociale;
  • risalire a una supposta sanità originaria, per liberare un inconscio sano e costituire un ambiente sociale privo delle pastoie di un pensiero razionale condizionante, fondendo la pulsione di morte con quella sessuale.

Per la PPI, ambedue le soluzioni sono inefficaci, in quanto contengono il vizio di fondo di porre all’origine della mente la pulsione, concetto del quale crediamo di poter fare a meno, senza peraltro abbandonare il punto di vista psicodinamico.
Per la PPI, la personalità si sviluppa lungo un processo evolutivo che prevede l’acquisizione di funzioni e la progressiva organizzazione che procede da un livello mentale di primo ordine a uno di secondo ordine.
Il conflitto accade, secondo questa visione, quando la personalità si sviluppa in modo incompleto e carenziale; come pure tutte le volte che un evento aggressivo mette alla prova l’organizzazione mentale o la struttura biologica che ne è il substrato.
Non c’è bisogno di ipotizzare necessariamente la pulsione, quindi, bensì osservare le dinamiche intersoggettive di relazione con l’ambiente ed eventuali momenti di crisi che alterano un equilibrio precedente e spingono a stabilirne uno nuovo.
Per la PPI, la personalità umana non è costretta, dunque, a un perenne sdoppiamento da un lato, oppure alla ricerca di una purezza incontaminata esente da conflitti dall’altro lato.
La PPI tenta di raccogliere i due noti bandoli della matassa psicodinamica e porre il conflitto come crisi evolutiva da superare e il deficit come carenza dello sviluppo da colmare, entrambi con il ricorso alla relazione terapeutica.

Lasciamo, quindi, il nostro soggetto standard, scelto per esporre un prospetto sul metodo della PPI, sapendo che egli è stato colto in un momento dato della sua vita, nella quale sono avvenuti dei passaggi fondamentali tali da garantirgli un equilibrio normale.
Per equilibrio normale intendiamo l’organizzazione tripartita della personalità, integrata nel seguente modo:

  • Protomentale: ridotto alla quota di base; cioè come livello mentale psicobiologico che si caratterizza per l’espressione delle emozioni e degli affetti i quali, grazie al processo di mentalizzazione, sono in grado di essere contenuti nelle immagini mentali. La crisi di un equilibrio normale dura il tempo necessario affinché avvenga la costituzione di un nuovo equilibrio, nel quale è fondamentale che il Protomentale rimanga alla quota di base, garantendo al soggetto una stabilità che deriva dall’avere interiorizzato le esperienze primarie di attaccamento e disporre dei livelli mentali di secondo ordine.
    Chiamiamo tale stabilità, riferita alla quota protomentale, sanità di base.
  • Pensiero Inconscio: deve avere una sua complessità e ampiezza. Le immagini mentali di sé e dell’altro da sé, elaborate interiorizzando le esperienze affettive con le figure significative, devono consentire al soggetto di realizzare una giusta distanza dalla dipendenza materiale dall’altro da sé. La certezza di sé offerta dalle immagini mentali spinge il soggetto verso nuove relazioni affettive con l’altro da sé e alla formazione di nuove immagini mentali. L’ampiezza del Pensiero Inconscio, come testimonia il pensiero onirico, comporta la formazione di immagini indipendenti dalla relazione con l’altro da sé, le fantasie, composte dal soggetto in modo creativo, a partire da immagini mentali già elaborate.
  • Pensiero Verbale: la stabilità del Protomentale, la ricchezza del Pensiero Inconscio sono i presupposti per cui si sviluppa e si consolida il Pensiero Verbale il quale, prima di essere parola sensata, è azione e movimento nelle relazioni intersoggettive. Anche un muto o un cieco possiede il Pensiero Verbale; in quanto riesce a esprimersi con l’immagine corporea, sintesi visibile dell’integrazione tra mente e corpo. Immagine corporea, scrittura, voce, forma artistica sono tra gli elementi necessari perché si manifesti questo pensiero simbolico nella sua modalità più evoluta.