The Penitent: le insidie del segreto professionale
A cura di Silvia Battisti¹, Valentina Battisti²
¹-² IRPPI, Istituto Romano di Psicoterapia Psicodinamica Integrata
A rational man, è il sottotitolo del film The Penitent (2023), che vede Luca Barbareschi produttore, regista e al contempo attore protagonista di questa intensa storia, basata su un’opera teatrale del 2016, del drammaturgo David Mamet. La storia si svolge a New York e narra dell’inquietante situazione che travolge uno psichiatra, Carlos David Hirsch, quando si rifiuta di testimoniare contro un paziente, omosessuale, instabile e violento. Il ragazzo, avuto in cura tempo prima, sarà responsabile di una strage nel college che frequentava e nel quale moriranno 8 persone.
Il film prende spunto da un caso reale
avvenuto anch’esso in un college universitario. Il caso in questione trattava di una ragazza, Tatiana Tarasoff, California, Università di Berkeley, 1969. Uno psichiatra viene denunciato dai genitori della stessa, in quanto aveva avuto in cura l’ex fidanzato della loro figlia. Il ragazzo aveva più volte minacciato di uccidere la ragazza, perché lo aveva lasciato. Lo psichiatra, ritenendosi vincolato dal segreto professionale, decise di non avvertire, delle minacce, né la famiglia e nemmeno la polizia. Tatiana venne poi uccisa dal suo ex fidanzato. La famiglia della vittima denuncerà in seguito lo psichiatra, per non aver dato tempestiva comunicazione delle malevole intenzioni del ragazzo. Un caso studio di riferimento nell’ambito della bioetica americana. Questa vicenda portò, infatti, la Corte di giudizio americana a stabilire criteri precisi per stabilire un confine, al privilegio di quello spazio confidenziale che protegge il rapporto tra medico e assistito.
The Penitent ha avuto poche recensioni positive
In molti siti dedicati si fa riferimento ad una certa staticità nelle riprese, a primi piani lunghi, azioni poco dinamiche. Il film, però, al di là delle scelte stilistiche del regista, a nostro avviso, riesce bene nell’intento di accendere una riflessione su quel tipo di conflitto interiore che ogni clinico potrebbe trovarsi ad affrontare. Quel delicato equilibrio tra regole deontologiche, a tutela dello spazio di completa fiducia, riservatezza e confidenza nel rapporto con il paziente e costruite con cura e pazienza, e regole che salvaguardano il pericolo per la comunità e l’eventuale impatto di un comportamento sulla società. Scelte giuste o sbagliate che potrebbero creare difficoltà, anche ai professionisti più maturi.
Quando e in che modo la “barriera” che protegge la relazione confidenziale con il paziente, può o deve essere abbattuta a fronte di un rischio per il paziente, per la società e per il professionista? Quale margine di discrezionalità è dato al professionista? Quali sono i criteri per valutare un rischio reale?
Il film ci conduce a rifiutare quei concetti assoluti
dove tutto o è bianco o è nero, dove esiste solo un pensiero unico e convergente, portandoci, invece, a porci domande esplorative e a riflettere, su come le situazioni possano essere osservate in modo più trasversale, con altri occhi e angolazioni. L’uomo razionale cede via via il posto ad un uomo tormentato, al fattore umano e psicologico che si insidia nel professionista. Carlos è, infatti, coinvolto anche in uno stress affettivo e familiare. La moglie in alcuni passaggi è compagna e confidente, in altri momenti entra in acceso conflitto, depressa ed esasperata. Si scaglia con veemenza contro di lui, abusando di alcol, gridando e accusandolo di sentirsi trascurata. Gli aspetti di vita personale mettono ulteriormente in crisi prima l’uomo e poi il professionista, ingabbiato in un conflitto tra etica, norme, valori ed affetti. Entrano in gioco il proprio credo, anche religioso, e la propria storia personale. Tutto diventa matassa informe difficile da sbrogliare. Per tutto lo scorrere del film, si ha l’impressione che Luca Barbareschi voglia trascinare lo spettatore in un lungo ed estenuante spazio di domanda.
Collaborare con la giustizia e testimoniare in difesa di un assassino
e di conseguenza consegnare i propri appunti, secretati per Codice Deontologico? Oppure rimanere fedele a sé stesso, alla propria morale? Sembra voglia domandarci “Ehi, Voi professionisti che guardate, seduti sul divano, cosa fareste al mio posto?” Un “posto” certamente molto scomodo, in cui sono presenti sofferenza ed angoscia interiori. Dal punto di vista psicologico, infatti, la battaglia personale del protagonista, emerge in quasi tutte le fasi del film, come fossero presenti due protagonisti, in lotta fra loro, senza alcuna pausa. Sia che ci troviamo nel suo studio professionale, sia davanti alle autorità competenti, sia lungo la spiaggia, l’atmosfera risulta sempre cupa, il grigiore degli ambienti si confonde con i dialoghi estremamente discorsivi, digressioni lunghe e ripetitive, come vi fossero continue aperture di parentesi e il tornare su concetti espressi un minuto prima. Un criceto nella ruota. Ruminazioni mentali, circoli viziosi, schemi di pensiero ripetitivi in cui cadiamo quando ci troviamo in grande difficoltà, senza risorse e alternative. Quando anche i fattori personali ed il proprio equilibrio vacillano, se non adeguatamente attenzionati. Il lavoro clinico prevede una “manutenzione” costante del nostro strumento principale: noi stessi e il nostro equilibrio psicologico, prima ancora del ruolo. Altrimenti tali fragilità ci renderanno ancor più minacciati nell’integrità personale e professionale, senza via d’uscita. Bloccati nella capacità riflessiva ed evolutiva, necessaria per lavorare al meglio anche in situazioni critiche.
Il film sembra trasportarci in una sorta di meta-livello osservativo
consentendoci di fondere il contenuto del film con le modalità, l’oggetto con la forma, l’osservatore e la propria prospettiva, diventando parte di ciò che stiamo analizzando e su cui stiamo riflettendo. Nella vita del protagonista tutto va in frantumi, tutto diventa qualcosa più grande di lui, un mostro a più teste, che imprigiona il protagonista in una gabbia, dove qualcuno ne ha buttato la chiave. L’atmosfera è statica, come mancasse l’aria ai protagonisti ma anche allo spettatore, che aspetta inerme un gran finale che in realtà arriverà un po’ frettoloso e debole. La gogna mediatica e non solo, l’attacco dei quotidiani che pubblicano frasi travisate e fuorvianti pronunciate da Carlos, e che lo fanno risultare omofobo. Ma anche il tribunale che incalza, richiedendo quelle informazioni “riservate” ma preziose, in termini giudiziari, in quanto appunti presi contestualmente con i colloqui psicologici fatti con il paziente. In essi sono contenute le trascrizioni delle sedute, anche delle terribili intenzioni del paziente, che si trasformano in agiti quando il paziente mette, sulla scrivania dello psichiatra, una pistola. Lo psichiatra gliela riconsegna. Come un atto di fiducia? Come difficoltà nel valutare delle priorità? Come stanchezza o stress?
Nel finale, la pistola sulla scrivania di Carlos
può condurci a farne una metafora interessante della gravosità di alcuni problemi che coinvolgono le persone, che arrivano nel nostro studio. Depositano, in quello spazio riservato e protetto, nuclei problematici importanti, pesanti, quanto delicati e da “Saper maneggiare con cura”. Un Sapere che prevede, prima di tutto, un equilibrio personale, un’integrazione della nostra identità, a scongiurare una deriva dissociativa, che può trovarsi dietro l’angolo. Ci troviamo davanti a quel dubbio amletico, che ogni psicologo e professionista della salute mentale potrebbe trovarsi a gestire, nel proprio cammino professionale. Saper trovare il corretto bilanciamento nella gestione dei confini del setting. Proteggere il paziente ma proteggere anche sé stesso e la società dai comportamenti di quel paziente. Dal punto vista del nostro Codice deontologico, la situazione è complessa poiché esistono alcune indicazioni che tra loro possono sembrare antitetiche.
Assicurare adeguata tutela ai valori
Il fine delle norme del nostro Codice è quello di assicurare adeguata tutela ai valori e beni giuridici ugualmente importanti: regole deontologiche poste a protezione della riservatezza del paziente e del rapporto di fiducia instaurato con il terapeuta che “deve astenersi dal rivelare informazioni apprese in ragione della propria attività professionale, anche in quei casi in cui può essere chiamato “a rendere testimonianza dinanzi all’Autorità Giudiziaria…Solo l’espresso consenso del paziente scioglierà il professionista dal vincolo di preservare il segreto, e leggi dello Stato a salvaguardia dei diritti della comunità, per reprimere i reati, anche attraverso la collaborazione con i cittadini professionisti “chiamati a segnalare comportamenti antigiuridici appresi nello svolgimento delle proprie professioni” (rispettivamente articoli 11 e 12 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani). Articoli chiari che non presentano difficoltà nell’interpretazione, e ci consentono di poter gestire qualsiasi situazione si dovesse presentare durante la nostra attività professionale. Nell’articolo 13, invece, troviamo concetti giuridici propri del diritto penale, con un richiamo al potere discrezionale dello psicologo, in alcuni casi, alla possibilità di derogare totalmente o parzialmente alla propria riservatezza. Si tratta di aspetti specificatamente giuridici che devono necessariamente essere conosciuti e studiati, per consentirci di valutare correttamente le diverse situazioni che via via si potrebbero presentare nel corso delle sedute.
In quale misura si possono ritenere prevedibili i comportamenti umani?
La domanda sorge spontanea: in quale misura si possono ritenere prevedibili i comportamenti umani? Quanto conta la storia e la visione personale dello psicologo in alcune circostanze anche rispetto al concetto di discrezionalità?
Materia certamente complessa, che impone al terapeuta un lavoro personale e una supervisione costanti, una sempre maggiore scrupolosità nel valutare le singole situazioni di rischio e le regole giuridiche a cui deve sottostare. Lavoro delicato il nostro, basato sulla condizione imprescindibile di costruire fin da subito un solido rapporto di fiducia col proprio paziente. Senza fiducia non c’è intervento di cura che tenga, non c’è fiducia senza spazio sicuro di confidenza, che getterà le basi per un’apertura e un engagement del paziente, e non c’è tale spazio senza segreto. E se il segreto diventasse un peso intollerabile da sopportare? E ancora, il segreto ha un carattere assoluto? É come il giorno o la notte? Oppure, mantenere un segreto dipende da una valutazione della situazione, da ciò che converrebbe fare meglio, dalla propria capacità di mentalizzazione? E in questo caso, possiamo definirlo comunque segreto? Sicuramente il dialogare con il paziente, che ci porta un’intenzione pericolosa, provare a persuaderlo, dissuaderlo da alcune azioni rischiose, è la strada migliore che si può percorrere. Far leva sulle sue risorse e sulle risorse di chi gli sta intorno.
Potremo trovarci tra l’incudine e il martello
e, nei casi di netto rifiuto, decidere che la cosa migliore è il male minore, valutando tutte le informazioni a disposizione, in modo rigoroso, prima di prendere una qualsiasi decisione. Certamente non è facile valutare quel “male minore”. Nel testo americano The Psychologist’s Legal Handbook (Stromberg 1988), dedicato ad aiutare gli psicologi con la legge, vi si trovano decine di pagine che trattano tutti i possibili scenari in cui una situazione “Tarasoff» potrebbe presentarsi. Si elencano diversi esempi, suggerendo tipi di comportamento da adottare e fornendo indicazioni su come aver cura, anche e soprattutto, della propria sicurezza, sia dal punto di vista legale e sia per la eventuale pericolosità del paziente. Una guida su come svolgere il ruolo di avvocati di sé stessi o per prendere decisioni legali importanti senza un consulente. In Italia, ancora si parla poco di queste problematiche, tranne in alcuni casi di cronaca, con notizie spot e occasionali. Un interessante testo del 2019, della Commissione Deontologica dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, fornisce una mappa completa dell’attuale scenario in materia, sottolineando i problemi ancora aperti, le criticità non ancora risolte. Il dibattito continua.
Nel frattempo, supervisione costante, collaborazione e peer to peer tra colleghi, informazione e aggiornamento continuo, possono certamente fare la differenza in casi simili a quello narrato nel film, dove il protagonista è stato, prima di tutto, solo nella tempesta.
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Bibliografia
Beauchamp T., Childress J. (1979), Principles of biomedical ethics, Oxford University Press, New York–Oxford.
Clifford D. Stromberg (1988), The Psychologist’s Legal Handbook , The Council for the National Register of Health Service Providers in Psychology, FisicalBook.
Fulero F. M. (1988), Tarasoff: 10 years later, American Psychological Association
Gracia D. (1993), Fondamenti di bioetica, Edizioni San Paolo.
Kahneman D. (2020), Pensieri lenti e veloci, Oscar Saggi Cult.
Perlin M. (1992), Tarasoff and the dilemma of the dangerous patient: new directions for the 1990’s, Law Psychol Rev.
Stampa P., Giannini A. M. (2019), Psicologia, etica e diritto, Franco Angeli.
Stone A.A. (1976), The Tarasoff decisions: suing psychotherapists to safeguard society. Harv Law Rev;
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Venturini E., Casagrande D., Toresini L. (2010), Il folle reato, Franco Angeli Psicologia.
Sitografia
CNOP – Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi – www.psy.it
CNOP – Codice Deontologico Psicologi Italiani, Codice Deontologico degli Psicologi Italiani – CNOP