Caratteristiche di struttura e meccanismi eziopatogenetici del funzionamento psicotico: un modello integrato tra psicodinamica e neurobiologia interpersonale

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Structural characteristics and aetiopathogenetic mechanisms of psychotic functioning: an integrated model between psychodynamics and interpersonal neurobiology

 

Caporale R. [1], Battisti V.. [2], Ricci F. [3]

 

  IRPPI – Istituto Romano di Psicoterapia Psicodinamica Integrata

IRPPI – Istituto Romano di Psicoterapia Psicodinamica Integrata

³ IRPPI – Istituto Romano di Psicoterapia Psicodinamica Integrata

Riassunto

Il presente lavoro si propone di presentare un nuovo modello integrato di sviluppo del funzionamento psicotico che permetterà di comprendere meglio le sue caratteristiche di struttura ed i relativi meccanismi eziopatogenetici in un’ottica traumatico-ambientale. Il crollo dell’intersoggettività prima e della soggettività poi darebbe vita ad una forma di riorganizzazione patologica di un sé disincarnato e frammentato e, allo stesso tempo, ad una compensativa modalità di relazione oggettuale di tipo adesivo-imitativa, in sostituzione all’organizzazione di un sistema di attaccamento.

Parole chiave: sé disincarnato; sé frammentato; modalità di relazione oggettuale adesivo imitativa; funzionamento psicotico; eziopatogenesi delle psicosi.

Abstract

The present work aims to present a new integrated model of the development of psychotic functioning that will allow to better understand its characteristics of structure and its etiopathogenetic mechanisms in a traumatic-environmental perspective. The collapse of first intersubjectivity and then subjectivity would give rise to a form of pathological reorganization of a disembodied and fragmented self and, at the same time, to a compensatory mode of object relation of an imitative adhesive type, in place of the organization of an attachment system.

Keywords: disembodied self; fragmented self; imitative adhesive type object relationship mode; psychotic functioning; etiopathogenesis of psychoses.

 

1. Introduzione ed obiettivi del presente lavoro

Il contributo di questo articolo vuole essere quello di proporre un nuovo modello di sviluppo del funzionamento psicotico in un’ottica integrata, frutto della convergenza di osservazioni clinico-psicodinamiche e ricerca neuroscientifica.

Partiremo da una rivisitazione di alcuni contributi in letteratura psicanalitica come quelli di Esther Bick (1964; 1968; 1986), Donald Meltzer (1975) e Didier Anzieu (1985; 1990). Approfondiremo il pensiero di questi autori ed i loro concetti di identità adesiva, identificazione adesiva e Io-pelle, integrandoli da una parte con le recenti scoperte delle neuroscienze e della neurobiologia interpersonale (e.g. Schore, 2022; Mucci, 2020; Hill, 2017), e dall’altra con gli studi attuali sull’attaccamento e mentalizzazione (e.g. Fonagy et al. 2002; Fonagy e Target, 2003).

Tale lavoro di sintesi integrativa permetterà di comprendere meglio le caratteristiche di struttura ed i meccanismi eziopatogenetici del funzionamento psicotico in un’ottica traumatico-ambientale. Dal crollo dell’intersoggettività prima e della soggettività poi, prenderebbe forma una riorganizzazione patologica di un sé disincarnato e frammentato e, allo stesso tempo, una compensativa modalità di relazione oggettuale di tipo adesivo-imitativa, in sostituzione all’organizzazione di un sistema attaccamento.

2. Osservazioni e studi psicodinamici

2.1 La frammentazione psicotica

Il primo concetto dal quale partiremo nel presente lavoro è quello di frammentazione psicotica. In ambito psicoanalitico, tale termine è stato utilizzato da differenti autori con differenti accezioni. Bion (1957) l’ha utilizzata per riferirsi a parti della personalità patologica, Fenichel (1957) per specificare un certo tipo di riorganizzazione della personalità rispetto al processo psicotico. Altri autori, in letteratura, hanno fatto riferimento alla frammentazione con i termini di “dissociazione molecolare” (Janet, 1889), “dissociazione” (Bleuler, 1955), di “disintegrazione” o “disgregazione” (Rosenfeld, 1958).

Nel linguaggio della psicoanalisi classica (e.g. Freud, 1933), con il termine disgregazione psicotica ci si riferisce a quei fenomeni clinici di dispersione della personalità che stanno a significare una regressione ad una fase dello sviluppo primitiva di tipo narcisistico, quest’ultima responsabile di quei fenomeni tipici dell’esordio schizofrenico.

Altri autori nell’ambito delle relazioni oggettuali della Scuola Inglese (Glover, 1956; Rosenfeld, 1958; Bion, 1957), pongono più attenzione alle funzioni di sintesi ed integrazione dell’Io piuttosto che agli aspetti regressivi. La psicosi deriverebbe proprio dalla disintegrazione di tali funzioni.

Glover (1956) sostiene come nelle prime fasi di sviluppo della mente vi siano molteplici Io primitivi, la cui sintesi darebbe luogo alla formazione di un Io nucleare. Le difficoltà in questo processo iniziale, dovute ad esperienze relazionali disfunzionali, porterebbero ad una condizione di “dissociazione patologica”, responsabile in termini evolutivi dell’organizzazione del processo psicotico.

Bion (1957) e Rosenfeld (1958) hanno messo in evidenza nel loro lavoro più gli aspetti di disorganizzazione e di confusione della mente. In rapporto ad esperienze negative caregiver-bambino, i prodotti mentali frammentati diverrebbero “oggetti bizzarri”, e non oggetti parziali come  in uno sviluppo normale secondo la teoria kleiniana (e.g. Klein, 1978). Questi “oggetti bizzarri” rappresenterebbero delle parti della personalità cristallizzate che si organizzerebbero in configurazioni specifiche a causa di dissociazioni più gravi ed anomale.

Infine, da sottolineare l’intuizione di Searles (1965), punto di partenza molto utile al nostro modello esplicativo delle psicosi, che mette in evidenza un aspetto specifico dell’organizzazione psicotica ovvero lo stato di indifferenziazione, un’impossibilità di giungere ad una separatezza psicologica tra caregiver e bambino, tra mondo interno e mondo esterno, una difficoltà nel distinguere il proprio sé dal non sé. Dunque, Searles (1965), nell’ambito della frammentazione psicotica, evidenzia la fusione tra caregiver e bambino, quella condizione simbiotica come modalità di investimento oggettuale che disconfermerà la famigerata “fase autistica” dello sviluppo come sosteneva la Mahler (1968; 1975).

2.2 La riorganizzazione psicotica

Un altro concetto, che vogliamo recuperare nel presente lavoro, elaborato dalla letteratura classica, in risposta ad una relazione caregiver–bambino gravemente disfunzionale, alla base del processo psicotico, è quello di una sorta di nuova organizzazione per far fronte ad un mondo emotivo caotico (Fenichel, 1957). Essa è data dal recupero, dalla ricostruzione o dall’organizzazione che si stabilisce a partire dalla disgregazione psicotica. Per il fenomeno clinico della riorganizzazione psicotica, Fenichel (1957) utilizza il termine “restituzione psicotica”, un concetto mutuato dalla  metapsicologia. Essa sembra il risultato di un modo di far fronte ad una condizione di frammentazione interna.

All’interno delle riorganizzazioni psicotiche o restituzioni psicotiche per usare il termine di Fenichel (1957), vengono inclusi alcuni quadri psicopatologici classici che rientrano più nei disturbi di personalità ma anche nella schizofrenia conclamata. In questi termini, quando Bion (1957) parla di “oggetti bizzarri” all’interno di una personalità psicotica ci si può riferire proprio al fenomeno clinico della restituzione psicotica, ossia quando l’individuo cerca di gestire quello che Bion definisce il “terrore senza nome”, quel caos emotivo che diviene intollerabile da un punto di vista psichico e a cui il soggetto cerca di far fronte con una nuova ricostruzione della realtà, con un nuovo senso della stessa come tentativo di guarigione. Ciò comporta un ritiro, in un mondo idiosincratico, in cui il caos emotivo diventa a questo punto più gestibile, nonostante una situazione sempre patologica. Nella concettualizzazione di Bion (1957), tale riorganizzazione psicotica non necessariamente può interessare tutta la personalità come nelle condizioni schizofreniche ma anche alcune parti della stessa, come per esempio nei funzionamenti limite.

In sintesi, con il concetto di riorganizzazione psicotica o restituzione secondo Fenichel (1957) si può intendere un nuovo rapporto con la realtà partendo da un ritiro psicotico dalla stessa. Tale fenomeno clinico ci aiuta a comprendere quelle manifestazioni, ovvero quei fenomeni curativi che cercano di gestire al meglio possibile le dissociazioni gravi alla base di una frammentazione psicotica. In questo tentativo di far fronte ad una condizione emotiva intollerabile, data dalla frammentazione, la riorganizzazione sarebbe una difesa per il soggetto rispetto alla realtà sempre però come risposta ad una condizione patologica. Nell’insieme, con questa modalità ricostruita si ha modo di recuperare un senso di coerenza interna riorganizzando tutti quegli elementi caotici che Bion definisce elementi beta (Bion, 1957), i quali altrimenti non potrebbero procedere in altro modo ad integrazione. In altri termini, la ristrutturazione patologica conferisce, seppur con costi di gestione psicologici alti, un senso di unità, cosi come vedremo nel pensiero della Bick (1964, 1968), di Meltzer (1975) e di Anzieu (1985).

2.3 I fenomeni di identità adesiva ed identificazione adesiva

Un’autrice psicodinamica che si è occupata dello studio delle psicosi infantili, attraverso l’Infant Observation, è Esther Bick (1964; 1968), il cui contributo maggiore è stato quello legato alle sue concettualizzazioni sulle funzioni protomentali della pelle, da cui poi si svilupperebbero gradualmente funzioni più complesse quali il pensiero.

L’esperienza della pelle come esperienza protomentale permetterebbe, attraverso sensazioni elementari,  di iniziare a costruire un primitivo senso “di essere tenuti insieme”, senza il quale il bambino potrà sperimentare altresì solo angoscia di frammentazione, “di cadere a pezzi”, di essere preda di terrore senza fine.

Questa primitiva sensazione di essere tenuti è facilitata dalla capacità materna dell’handling. Attraverso le sequenze ripetute di interazioni tra madre e bambino, la funzione protomentale contenitiva della pelle fornirebbe gradualmente un confine corporeo, una prima differenziazione e discriminazione tra bambino e caregiver in una fase molto precoce dello sviluppo, in cui ancora non vi sarebbe una mentalizzazione del corpo. Questa fase molto precoce dello sviluppo sarebbe caratterizzata da quei fenomeni tipici di scissione ed identificazione protettiva tipici del modello kleiniano. Quando lo sviluppo è sostenuto da modalità funzionali nell’interazione caregiver bambino, questo favorirebbe la costituzione di una pelle psichica, base dei futuri processi di interiorizzazione. In questo modo, gradualmente, si genererebbero processi di differenziazione attraverso lo sviluppo di un’identificazione primaria e così la mente procederebbe verso una maggiore integrazione incorporando sempre più memorie sensoriali.

La Bick (1964) descrive altresì che, quando la paura intensa, legata al senso di dispersione, è causata da sensazioni e percezioni non organizzate, ossia non contenuta da un’ottimale manipolazione della madre attraverso adeguati scambi corporei, il bambino metterebbe in atto, grazie l’uso della muscolatura, fenomeni di irrigidimento corporeo o stereotipie motorie con funzioni di auto contenimento, utili a difendersi da tali sensazioni intollerabili. La Bick (1968) definisce tale processo di compensazione la “formazione di una seconda pelle difettosa”. Tale meccanismo sarebbe un processo riorganizzativo di tipo patologico messo in atto dal bambino per gestire al meglio angosce primitive.  A questa difesa intrapsichica, la Bick ne individua un’altra di tipo più relazionale e, che noi riteniamo molto importante recuperare, chiamata “identità adesiva”. In tale modalità, il bambino aderirebbe alla superficie dell’oggetto per acquisire un rudimentale grado di sicurezza e contrastare angosce massive nei confronti di catastrofiche rotture della coesione del proprio sé, dettate dal rischio di una dispersione in uno spazio senza fine. Tale concettualizzazione prende spunto dalle idee di Imre Hermann (1976) sull’istinto ad aderire e sulla descrizione dell’adesione agli oggetti, caratteristica degli stati ocnofilici, espressa da Michael Balint. Questa teorizzazione anticiperà le idee che più tardi saranno sviluppate da John Bowlby e dalla sua teoria dell’attaccamento (e.g. 1969; 1973).

Un altro autore che ha ripreso il pensiero della Bick sull’identità adesiva è Donald Meltzer (1975) con i suoi studi di osservazione sistematica sui bambini autistici. Meltzer individua il meccanismo dello smantellamento all’interno di uno stato indifferenziato e di fusione in cui si trova il bambino con il caregiver in una fase precocissima di sviluppo. Tale meccanismo per Meltzer è un processo passivo, non un meccanismo attivo di difesa, che deriva dalla sospensione del processo attentivo, quest’ultimo considerato da Meltzer come un vero e proprio organo mentale, fondamentale nell’elaborazione degli stimoli sensoriali. La capacità attentiva del bambino si correla con quella della madre in relazione. Il bambino ha modo attraverso una relazione sicura di organizzare in maniera ottimale le sue sensazioni, percezioni ed emozioni. Dunque, una relazione funzionale renderebbe al bambino più facile l’integrazione attraverso l’attenzione delle diverse percezioni derivanti dai differenti e distinti canali sensoriali. Questo progressivo processo di integrazione mentale permetterebbe di passare da uno stato indifferenziato ad una maggiore differenziazione nella percezione di sé e dell’altro diverso da sé.

In una relazione disfunzionale, lo smantellamento si tradurrebbe in un processo di frammentazione sensoriale in elementi protomentali basici. Nello smantellamento, l’oggetto sarebbe parcellizzato in frammenti sensoriali ciascuno dei quali avrebbe una sua qualità specifica senza la possibilità però di un’integrazione degli stessi. Di conseguenza, il pensiero non avrebbe possibilità di svilupparsi, poiché lo smantellamento non permetterebbe l’organizzazione dell’esperienza sensoriale, emotiva e, quindi, mentale, dando così luogo ad un disturbo del pensiero.

Lo smantellamento come processo psichico favorirebbe l’emergere di un conseguente meccanismo chiamato “identificazione adesiva” (1975). Mentre la Bick parla di identità adesiva, Meltzer conia il termine di identificazione adesiva sottolineando l’abolizione di ogni confine corporeo tra il bambino e il caregiver, tra il sé e l’oggetto, dove si instaura una modalità relazionale adesiva di tipo fusionale e non vi è possibilità di separatezza in termini simbolici. La fenomenologia dell’identificazione adesiva è rappresentata da un comportamento mimetico in cui l’appoggiarsi all’altro, imitandolo in maniera passiva senza alcun tipo di elaborazione della relazione, porterebbe quindi ad una dipendenza materiale, poiché non vi sarebbe lo sviluppo di un pensiero che possa garantire un processo di separazione. Meltzer (1975) descrive i meccanismi di smantellamento e di identificazione adesiva nell’ambito dell’osservazione dei bambini autistici, in cui tali condizioni patologiche sono più evidenti. Il bambino rimane così in uno stato di adesione all’altro in modo passivo dove lo smantellamento e l’imitazione dell’altro prevalgono come processi. 

L’identificazione adesiva, in altri termini, è una modalità di relazione che oggi chiameremo anche “disincarnata” (Gallese, 2006), in cui non vi è intersoggettività, ma imitazione passiva dell’altro e del mondo esterno. Dunque, la modalità adesiva rappresenta un sistema di imitazione passivo senza evoluzione, caratterizzato da quelli che possiamo definire dei manierismi.

Dunque, sia nella Bick che in Meltzer vediamo un’importanza strutturale e strutturante data all’elaborazione sensoriale, in uno stato iniziale di indifferenziazione simbiotica, che procede attraverso fasi di una maggiore elaborazione ed integrazione di informazioni fino a giungere allo sviluppo di un pensiero simbolico, come ritroveremo anche nelle teorizzazioni di Didieur Anzieu (1985; 1990).

2.4 Lo sviluppo dell’Io-pelle

Come per la Bick (e.g 1964) e Meltzer (1975), anche per Anzieu (1985; 1990) la pelle ha un ruolo fondamentale nella costituzione di una prima organizzazione mentale. Il concetto di “Io-pelle” risponde, secondo Anzieu, al “bisogno di un involucro narcisistico e assicura all’apparato psichico la certezza e la costanza di un benessere di base” (1985). La pelle assume fin da subito una grande importanza poiché fornisce all’apparato psichico le rappresentazioni che costituiscono l’Io e le sue funzioni. L’Io-pelle è “una rappresentazione di cui si serve l’Io del bambino, durante le fasi precoci dello sviluppo, per rappresentarsi sé stesso come Io che contiene i contenuti psichici, a partire dalla propria esperienza della superficie del corpo” (Anzieu, 1985).

All’inizio dello sviluppo, è presente la fantasia di una pelle comune, una comunicazione diretta tra corpi, mantenendo così caregiver e neonato in una reciproca dipendenza di natura simbiotica. È necessario, dunque, arrivare al riconoscimento dell’esistenza di una propria pelle e di conseguenza di un proprio Io. Tale acquisizione evolutiva non è semplice poiché si attivano nel neonato angosce primitive di separazione e lacerazione quasi fisica. L’esperienza di una superficie corporea e, dunque, della propria separatezza può avvenire grazie ad esperienze positive di holding, di handling e di presenting object (Winnicott, 1965). Tali memorie implicite strutturanti possono permettere di elaborare le angosce provenienti da una possibile separazione e di costituire il proprio Io-pelle, grazie ad un processo di doppia interiorizzazione. Anzieu (1985; 1990) parla d’interiorizzazione dell’interfaccia, che andrà a costituire un involucro psichico in grado di contenere i contenuti psichici, e d’interiorizzazione dell’ambiente materno, che andrà invece a generare il mondo interno dei pensieri, degli affetti e delle immagini.

L’Io-pelle permette la nascita di una serie di funzioni. La prima è quella di fornire un sostegno della vita psichica, grazie all’interiorizzazione dell’holding. Anzieu asserisce: “l’Io-pelle è una parte della madre, in particolare le mani, che è stata interiorizzata e che mantiene la vita psichica in condizione di funzionare, almeno durante la veglia, proprio come durante lo stesso tempo la madre mantiene il corpo del bambino in uno stato di unità e solidità” (1985). Il bambino mentre sperimenta il corpo del caregiver, può conquistare il proprio, a patto che egli stesso sia sicuro di avere un contatto stretto e stabile con la sua pelle. È quindi necessario che ci sia un’identificazione primaria con un oggetto di supporto che stringe e regge il bambino, più che un’incorporazione del seno che nutre come teorizza la scuola kleiniana. Una seconda importante funzione dell’Io-pelle è quella di contenimento, favorita dall’handling, e legata alla capacità del caregiver di fornire attraverso le cure al bambino la sensazione del “corpo come sacco”. Una terza funzione dell’Io-pelle è quella di para-eccitazione, ossia di difesa da sovra stimolazione ambientale.                                          

Se non vi è contenimento fisico ed emotivo, il bambino eviterà la frustrazione attaccando i pensieri stessi come oggetti cattivi, ed i legami fra i pensieri, in modo tale che la realtà sia aggredita e distrutta. Il risultato è un processo di pensiero frammentato che può diventare psicotico ed un bisogno molto intensificato di ulteriore identificazione proiettiva e scissione per contenere la frustrazione (Fonagy e Target, 2003).                                                                                                     

Dunque, anche in Anzieu vi è un’attenzione nel cogliere lo sviluppo mentale partendo da elementi sensoriali come la pelle per arrivare in maniera gerarchica a funzioni più complesse come le capacità simboliche. Allo stesso modo, quando la diade è fortemente disfunzionale, in termini di difficoltà di contenimento, queste possono favorire lo sviluppo di un funzionamento psicotico con frammentazione ed il permanere di modalità adesive nelle prime relazioni.

 3. Gli studi su trauma, attaccamento e psicosi

I lavori su trauma, attaccamento e psicosi sono studi correlazionali che mettono in evidenza il ruolo centrale del trauma relazione precoce (Schore, 2022; Mucci, 2020) come fattore di rischio sia nella patogenesi del funzionamento psicotico sia nell’innesco dell’esordio (e.g. Varese et al., 2012).

La ricerca mette in evidenza come gli eventi traumatici rappresentino un importante fattore di rischio nello sviluppo delle psicosi, soprattutto quelli legati alle prime relazioni con le figure di attaccamento, sottolineando anche l’importanza della precocità del trauma (Varese et al., 2012; Bechdolf et al, 2010; Van Os et al., 2008; Cutajar et al., 2010; Thompson et al., 2014).

Nell’ambito dell’attaccamento, Varese e colleghi (2012) hanno pubblicato una importante meta-analisi, rilevandoo la presenza di traumi quali il neglect, gli abusi fisici, sessuali ed emotivi, e i lutti precoci nelle storie di pazienti affetti da sindromi psicotiche, anche se non tutte le ricerche siano concordi. In particolare, gli abusi sessuali sembrerebbero essere gli eventi che più degli altri influenzino la transizione da uno stato ad alto rischio ad un disturbo franco (Cutajar et al., 2010; Thompson et al., 2014). Malgrado gli studi in questo ambito siano pochi, essi sembrano andare nella direzione di un modello condiviso di trauma-dissociazione-psicosi. 

Bechdolf et al., (2010) mostrano come, oltre la presenza di esperienze costantemente disempatiche legate alle relazioni di attaccamento, anche altri tipi di traumi come il coinvolgimento o l’aver assistito a eventi incontrollabili quali incidenti, attentati, catastrofi naturali e guerre, risultino fattori predisponenti ad uno stato ad alto rischio per i disturbi psicotici. Allo stesso tempo, Van Os (2008) sottolinea come ad incrementare la vulnerabilità psicotica possano essere determinanti alcuni fattori precipitanti quali l’uso di sostanze, che sembrino slatentizzare il disturbo.

La ricerca nell’ambito dell’attaccamento, inoltre, mette in evidenza la presenza di meccanismi dissociativi in vari disturbi psicopatologici ed anche nella psicosi. Ad esempio, la ricerca mostra come vi sia una frequente associazione tra i disturbi post-traumatici da stress (PTSD) e lo sviluppo successivo di sintomi psicotici (e.g. Bechdolf et al., 2010; Kline et al., 2016), tollerando l’importanza a livello terapeutico di evidenziare eventi traumatici nella storia di vita di pazienti ad alto rischio. Interessante notare è che tali ricerche mettano in evidenza gli elementi comuni della dissociazione tra PTSD, disturbi dissociativi dell’identità e psicosi come ad esempio le dispercezioni, il ritiro sociale (Bailey et al. 2018). Gli stessi autori hanno trovato correlazioni tra PTSD e sintomi ad alto rischio in adolescenti evidenziando come di fatto le esperienze traumatiche possano portare alla comparsa di deliri e allucinazioni (Bailey et al. 2018).

In sintesi, gli studi nell’ambito dell’attaccamento riportano correlazioni tra attaccamento disorganizzato, sintomi dissociativi simili a quelli riscontrati nei PTSD e vunerabilità allo sviluppo di una condizione psicotica (e.g. Van Winkel et al., 2013; Bentall et al., 2014).

All’interno del paradigma dell’attaccamento, il recente filone di ricerca sulla mentalizzazione (e.g. Fonagy et al. 2002; Fonagy e Target, 2003), ha approfondito i deficit della funzione riflessiva soprattutto nel disturbo borderline di personalità. Malgrado ciò, in questo ambito, iniziano ad implementarsi lavori scientifici che studiano le correlazioni tra attaccamento disorganizzato, deficit nella metacognizione e sviluppo di disturbi psicotici. Le caratteristiche centrali del trauma relazionale e di traumi più gravi favoriscono l’esposizione ad intensità imprevedibili ed estreme di disregolazione emotiva e di dissociazione che potrebbero indurre ad un terrorizzante ed insolubile dilemma di attaccamento, quale il “ terrore senza nome” di Bion (1957), tipico delle psicosi con paure prive di qualsiasi pensabilità e significato.

Williams et al. (2018) in uno studio recente, hanno indagato l’impatto di mediatori specifici nelle esperienze avverse nell’infanzia associate a psicosi. Tra le famiglie di variabili emergono, oltre i sintomi post-traumatici, la disregolazione affettiva, i processi cognitivi e metacognitivi e i deficit di mentalizzazione.

Attualmente, benché il paradigma dell’attaccamento e della mentalizzazione rappresenti una modellistica che ben si coniuga con i dati neuroscientifici nella comprensione dello sviluppo delle psicosi, gli stessi studi non hanno ancora gettato luce sui meccanismi specifici alla base della sua patogenesi.

 

4. La ricerca nel campo della neurobiologia interpersonale

I meccanismi specifici che differenziano i disturbi psicotici dai disturbi di personalità sono dunque a tutt’oggi da chiarire. Anche nel campo della ricerca in neurobiologia interpersonale, sebbene alcuni paradigmi di riferimento attuali quali quelli della regolazione affettiva di Schore (e.g. 1994; 2022) o della teoria basata sulla mentalizzazione (e.g. Fonagy et al. 2002; Fonagy e Target, 2003) aggiungano qualcosa in più rispetto alla comprensione della psicopatologia grave, essi stessi nascono, nello specifico, come modelli esplicativi sopratutto dei disturbi di personalità e non delle psicosi. In particolare, essi non si focalizzano sui meccanismi eziopatogenici specifici e non spiegano le modalità attraverso le quali i fenomeni dissociativi possano condurre allo sviluppo di psicosi.

Nel modello neuro-psico-traumatologico di Schore (e.g. 1994; 2022), i caregiver disorganizzati a livello di attaccamento, soggetti a imprevedibili eccessi di iperarousal e di ipoarousal e a stati di profonda dissociazione, e a loro volta vittime di eventi traumatici come abusi sessuali e gravi maltrattamenti (e.g. Carlson et al., 1989; Cicchetti e Toth, 1995; Van der Kolk, 1994), sono incapaci di processare e regolare le emozioni dei loro figli. Sotto stress possono diventare caregiver spaventati/spaventanti, inducendo nel bambino stati di intensa paura e terrore. Il risultato è un ambiente di attaccamento disorganizzante con difficoltà a gestire le emozioni. Secondo Schore (1994), in questo quadro di attaccamento disorganizzato precoce, si produrrebbero una serie di alterazioni neurochimiche alla base dei due sistemi principali autonomici, simpatico e parasimpatico, responsabili entrambi nel moderare gli stati di attivazione dell’organismo sul piano corporeo ed emotivo. In un modello operativo disorganizzato, i due sistemi entrerebbero in funzione simultaneamente generando profondi meccanismi dissociativi e, di conseguenza, creando una vulnerabilità a disturbi psicopatologici gravi incluse probabilmente anche le psicosi. Nello specifico, Schore (e.g. 1994; 2022) mette in evidenza come gli affetti dissociati nel corso delle relazioni primarie precoci di attaccamento non possano essere integrati in un senso del sè più simbolico e di come l’intersoggettività si indebolisca, portando le strutture del sistema primario di regolazione emotiva a non essere più integrate, dunque, a livello cerebrale, a non scambiarsi più informazioni in maniera bilanciata in termini interemisferici. Ne deriverebbe che l’informazione affettiva non sia processata nell’emisfero corticale destro in maniera corretta, non riceva, dunque, un processamento primario nella memoria implicita ed, infine, non possa essere trasferita all’emisfero sinistro per una valutazione di secondo ordine cosciente più articolata.

Schore (e.g. 1994; 2022) sostiene che una regolazione affettiva disturbata, derivata da un attaccamento disorganizzato, sia il difetto centrale sotteso a diversi disturbi di personalità e anche a molti disturbi clinici. Nello specifico, il pattern disorganizzato risulterebbe soprattutto associato a disturbi di personalità borderline (e.g. Fonagy te al. 2002).

In sintesi, l’esposizione a ripetute relazioni disempatiche, o a traumi tipo abusi sessuali e maltrattamenti, darebbe luogo a fenomeni di dissociazione più grave, in genere presenti nell’attaccamento disorganizzato, favorendo la vulnerabilità allo sviluppo di disturbi dissociativi e a psicopatologie gravi, come anche le psicosi.

Partendo dal pensiero di Schore (e.g. 1994; 2022) ed integrandolo con la teoria basata sulla mentalizzazione (e.g. Fonagy et al., 2002; Fonagy e Target, 2003), Hill (2017) mette in evidenza come le profonde alterazioni del sistema primario di regolazione emotiva influenzino il sistema secondario, rappresentato dalle capacità di mentalizzazione, dove sono coinvolte funzioni più complesse sul piano evolutivo anche in termini neurobiologici. I profondi deficit di mentalizzazione, causati da traumi di tipo umano e non (Mucci, 2020), nello sviluppo anche precocissimo (primi 6 mesi di vita), creerebbero il terreno fertile per l’emergere di psicopatologia grave inclusa la psicosi.

5. Revisione del modello eziopatogenetico e nuove caratteristiche di struttura psicotica

Dopo attenta rilettura delle osservazioni e teorizzazioni psicanalitiche della Bick (1964; 1968), Meltzer (1975) e Anzieu (1985), e alla luce del paradigma attaccamentista e delle recenti ricerche della neurobiologia interpersonale (e.g. Schore, 2022; Mucci, 2020; Hill, 2017), proponiamo in questo lavoro una visione più integrata della patogenesi del funzionamento psicotico.

In linea con il modello eziopatogenetico di Schore (2022), Mucci (2020) e Hill (2017), il trauma da mano umana che si consuma con le primissime figure di attaccamento rappresenta uno dei fattori di rischio che più contribuisce ad organizzare il potenziale psicotico. Sempre gli stessi Autori mettono in evidenza, inoltre, due caratteristiche chiave del trauma relazionale, la tipologia di trauma (neglect, scarsa sintonizzazione, abusi ect.) e la precocità con la quale esso impatta sul periodo critico di sviluppo. Infatti, i modelli psicotraumatologici di Schore (2022) e Mucci (2020) riconoscono come l’esposizione precocissima (entro i primi tre/sei mesi di vita) a relazioni di caregiving improntate all’estrema trascuratezza e violenza possano orientare il funzionamento mentale del bambino verso i disturbi più gravi della personalità, quali ad esempio quelli antisociali.

Anche se, come avevamo già sottolineato, tali modelli neurobiologici dello sviluppo psichico e della psicopatologia non diano conto di come si strutturi la patologia psicotica nello specifico, queste considerazioni teorico cliniche a nostro avviso sono molto importanti come punto di partenza nella comprensione della sua eziopatogenesi. Concordiamo, infatti, che soprattutto la trascuratezza in termini di relazioni totalmente disempatiche possano determinare un crollo dell’intersoggettività primaria (Ammaniti e Gallese, 2014) con conseguenze molto gravi nella strutturazione di un proto-se (Damasio, 1995).

Infatti, tutti gli studi osservativi dell’Infant Research restituiscono la fotografia di un bambino attivo, responsivo, connesso a livello relazionale e con una rudimentale soggettività fin dalla nascita (Beebe e Lachmann, 2002; Stern 1986), disconfermando una possibile fase autistica (Mahler, 1968; Mahler et al., 1975). Tale propensione alla relazione risulterebbe funzionale alla costruzione di un’intersoggettività primaria con la figura di attaccamento, a propria volta strutturante per la mente nei termini dello sviluppo di una soggettività, di un sé più coeso e integrato a livello mente-corpo.

A nostro avviso, tale mancata sintonizzazione pervasiva, cronica, presente fin già dalla nascita e  legata soprattutto al mancato contatto fisico (handling) ed emotivo (holding) del caregiver primario, si innesterebbe in un momento evolutivo critico nello sviluppo della funzione proto-mentale dell’Io-pelle psichico (Anzieu, 1985; 1990). L’esperienza della pelle contribuisce ad organizzare una della più primitive sensazioni di essere tenuti insieme passivamente, senza la quale saremmo preda dell’angoscia di cadere a pezzi. L’internalizzazione di questa funzione fornisce al neonato la primitiva sensazione di un confine corporeo, di una distinzione fisica e, allo stesso tempo, quella di essere un contenitore, quest’ultimo necessario precursore della scissione e dei meccanismi proiettivi ed introiettivi, ossia di quelle tipiche dinamiche primitive teorizzate dal modello delle relazioni oggettuali. L’internalizzazione delle funzioni contenitive della pelle avverrebbe durante uno stadio precoce di apparente non integrazione ed indifferenziazione tra psiche e soma, quando l’identificazione proiettiva esisterebbe come primitivo meccanismo di difesa (Bick, 1964; 1968).

L’impossibilità di esercitare tale funzione da parte del caregiver, frutto di un crollo dell’intersoggettività, potrebbe lasciare il bambino in una simbiosi indifferenziata, con confini corporei labili ed una mente disincarnata (Meltzer, 1975; Anzieu, 1985; Gallese, 2006), frutto di esperienze emotivo-sensoriali non riconosciute, creando anche una possibile vulnerabilità a tutte quelle psicopatologie di natura dissociativa con particolare interessamento del corpo come i disturbi somatoformi.

Riassumendo, in questo lavoro di sintesi teorico clinica, asseriamo che nella strutturazione di un funzionamento psicotico intervenga un particolare fattore di rischio traumatico ambientale, in una primissima fase dello sviluppo, quale quello della trascuratezza fisica ed emotiva della prima figura di attaccamento. Tale crollo dell’intersoggettività in un periodo così critico dello sviluppo in cui si costituiscono le funzioni protomentali della pelle come prima percezione di un confine corporeo, porterebbe a due conseguenze.

La prima riguarderebbe l’esposizione della mente ad un grave e costante stato dissociativo di non integrazione o frammentazione del sé, in cui il neonato sarebbe chiamato a contrastare angosce massive nei confronti di catastrofiche rotture della propria coesione interna, conseguenza della dispersione del sé in uno spazio senza fine (Bick, 1964; 1968). Per far fronte a tale mondo emotivo caotico, la mente attiverebbe di conseguenza una sorta di riorganizzazione o nuova organizzazione patologica (Fenichel, 1957). Tale riorganizzazione si tradurrebbe nello sviluppo di un pensiero tutto proprio, governato da regole e contenuti idiosincratici tipici di quella sintomatologia positiva espressa dalle psicosi.

Il secondo effetto interverrebbe, a livello relazionale, nella costruzione di una particolare modalità d’investimento oggettuale patologica compensativa. Il crollo dell’intersoggettività primaria genererebbe, al posto dell’attivazione di un sistema attaccamento, un meccanismo di identificazione adesiva senza evoluzione (Meltzer, 1975), attraverso cui il bambino, potenziale psicotico, “si appoggerebbe” all’altro in una modalità diremmo oggi “disincarnata” (Gallese, 2006). In un sistema in cui non vi è intersoggettività, vi è l’imitazione passiva dell’altro e del mondo esterno. Dunque, la modalità adesiva ed un conseguente sistema di imitazione passivo contraddistinguerebbe il funzionamento psicotico, e si sostituirebbe all’attivazione di un sistema di attaccamento.

Infine, possiamo concludere che, a differenza dei funzionamenti borderline anche gravi, la qualità sia della struttura del sè che della relazione oggettuale sia diversa. Nei casi di funzionamento psicotico abbiamo a che fare con un crollo dell’intersoggettività prima e della soggettività poi. Dunque, a livello intrapsichico, non possiamo parlare di organizzazione ma di non integrazione o indifferenziazione di un sè frammentato e disincarcato, e a livello oggettuale non possiamo parlare di organizzazione di un sistema attaccamento ma di un patologico meccanismo adesivo imitativo.

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